giovedì 4 maggio 2017
Dobbiamo ammetterlo. Noi italiani non conosciamo la Bibbia. Noi cattolici italiani non conosciamo la Bibbia. Tutti l'abbiamo nelle nostre case ma non la frequentiamo. Se poi guardiamo al rapporto fra Bibbia e letteratura, l'Italia è uno dei Paesi in cui meno gli scrittori contemporanei ne hanno subito il fascino e l'influenza. Sono stati necessari alcuni grandi critici letterari provenienti dal mondo anglosassone e non dichiaratamente credenti, George Steiner, Harold Bloom e Northrop Frye, a doverci ricordare che la Bibbia è stato il Grande Codice della cultura occidentale.
Certo, negli ultimi decenni grazie all'opera di studiosi come il cardinale Gianfranco Ravasi questo concetto è a poco a poco penetrato nel mondo della cultura. Ma se pensiamo invece ad altre grandi nazioni europee, ma anche alla Russia o all'America, c'è stata una fortissima incidenza da parte della teologia biblica sull'espressione narrativa.
Ora, se qui proponiamo la lettura di un libro di Erri De Luca, che alla Bibbia si è affacciato da profano, apprendendone la lingua e poi traducendola a suo modo, è perché lo scrittore napoletano ha inventato un modo nuovo di raccontare le vicende e i personaggi del Libro sacro. A volte facendo storcere il naso a biblisti e letterati, ma a mio parere individuando interpretazioni originali. È il caso di Una nuvola come tappeto (Feltrinelli 1991), il primo dei suoi libri dedicati alla Scrittura, cui ne sono seguiti tanti altri su Giona, Sansone, Ruth, eccetera. Per De Luca la Bibbia è un libro meraviglioso, un solenne intreccio di letteratura e di sacro: «Nel corso degli anni – spiega – quel libro è diventato la mia intimità. Salgo le sue pagine ad ogni risveglio, spengo su di esse la luce, le percorro come i campi che sono fermi eppure mutano a passi di stagione. Questa frequentazione è tutta l'autorità di cui dispongo di quello che ho scritto». È una straordinaria passione di lettore e di traduttore che lo muove e in questa impresa prende la Bibbia alla lettera: «Io me ne sto all'imboccatura, all'inizio, mi fermo alla fonte, mentre invece la religione, la tradizione sono la foce di quell'acqua che lì comincia e che poi si arricchisce, strada facendo, di tutto». Il titolo del libro viene dal salmo 105, dove si canta Dio che guida gli ebrei nel deserto. Alla traduzione ufficiale del rigo 39 «distese una nube per proteggerli» egli preferisce «stese una nuvola come tappeto». Così in altri casi, come quando Dio risponde a Mosè che gli chiede il nome: al posto di «Io sono colui che è», De Luca traduce: «Sarò ciò che sarò». E spiega: «Qui si tratta del nome che Dio dà di sé: intenderlo alla lettera non è scrupolo di pedante. "Sarò ciò che sarò" non è una risposta sprezzante, come può apparire a prima vista: non è più solamente il Dio dei Padri e del passato, ma è il Dio del futuro che a Mosè si dichiara».
De Luca insomma ha l'indubbio merito di provocare e spesso di legare i passi biblici a un senso ulteriore o all'attualità. Come quando Dio invita gli ebrei a far uso della manna secondo la regola «a ciascuno secondo i suoi bisogni», norma poi imitata dal marxismo e che ancor oggi, se applicata, potrebbe servire a «bandire l'indigenza»; o come quando ricorda i tanti nemici del deserto che nei secoli hanno colpito gli ebrei, anche nel '900 «nel ventre dell'Europa». Si potrà obiettare in mille modi alla versione di Erri De Luca o polemizzare per alcune sue posizioni politiche, ma è innegabile riconoscere nei suoi scritti pura genialità. In un suo romanzo recente e a mio parere meno riuscito di altri, Storia di Irene, ecco come da non credente dà in poche righe una prova emozionante dell'esistenza di Dio a partire dalla bellezza: «Del creatore posso leggere nelle pagine sacre, nella sua prima lingua, ma non ne so la voce, il corpo che la dice. L'unico indizio a suo favore è lo spargimento della bellezza fino a scialacquarla, troppa e immeritata. Potrebbe essere la traccia di una volontà, la sua firma diffusa».
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