domenica 28 gennaio 2018
Ce ne andavamo ancora all'avventura su quel pianoro desolato quando si levò un vento potente. Il vento è il simbolo dello Spirito Santo. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va. In quel momento, tuttavia, il simbolo si rivoltava e perfino si rattrappiva. Lo Spirito Santo era ormai soltanto vento e quel vento veniva da est. Ci pungeva gli occhi, ci penetrava negli abiti, ci spingeva la polvere in bocca e nelle orecchie. Il fischio era continuo, come se un pubblico invisibile e infaticabile non smettesse di contestare i pessimi attori che eravamo. E poi no, quel fischio non era neppure beffardo. Il vento era vento, le pietre erano pietre, gli alberi erano alberi, e noi eravamo due poveri idioti. L'analogia ci aveva abbandonato, lasciandoci in un deserto ancor più deserto. Di fatto, quando c'è l'analogia, anche il deserto parla, anche il deserto si popola: uno pensa agli ebrei nel Sinai, a Gesù tentato da Satana, alla Parigi-Dakar, al tenente Drogo nel Deserto dei Tartari. Appena l'analogia scompare, i segni si cancellano, la città popolosa si svuota, la verde foresta diventa una boscaglia di rovi. Un uccello nel cielo non fa più pensare enfaticamente alla libertà e alla gioia. È solo un uccello che agita le ali, forse ancora meno. Non vuol dire più niente.
Fortuna volle che fratel Ugo fosse il primo a mettersi a piangere. Il vento asciugava rapidamente le sue lacrime, ma me ne accorsi lo stesso. Forse stavo aspettando il suo momento di debolezza. La sola felicità che ci resta, talvolta, sta nella disgrazia degli altri. Ci si può autoproclamare consolatori. Mostrare compassionevoli. Quel che c'è di comodo nella compassione è che dà l'impressione che sia possibile abbassarsi ancora, anche quando ci si trova veramente al fondo, e dunque procura il sentimento della propria elevazione. Così, ero pronto a compatire al dolore di fratel Ugo ma non a rallegrarmi dei suoi successi. La sua gioia era per me intollerabile. Le sue lacrime mi apparivano come una manna. Dietro gli arbusti che non smettevano di scuotere il capo, avvistammo la rientranza di uno sperone roccioso. Non ci eravamo ancora sistemati in quel riparo contro il vento cattivo che già ponevo dolcemente la mano sull'avambraccio del mio confratello: «È dura, lo so… bisogna conservare la fiducia…». Quella stessa fiducia che mi mancava disperatamente, ma non mi costava niente pronunciare quelle parole ovvie. Spesso ho constatato che nell'ordine spirituale si è completamente capaci di dare ciò che non si ha. È questo il culmine dell'ipocrisia? È questo il segno di un Dio che opera con tubature vuote? Fede o malafede? Mi misi a dargli piccole pacche gentili sulle spalle, come si fa con un bambino che singhiozza ancora per il suo incubo. Osai anche dirgli: «Sono con te», poi, cosciente della mia temerarietà, rettificai precisando: «Dio è con noi», sebbene il vento fosse solamente vento, e la roccia una roccia tra mille altre, perfettamente dura e muta.
Non pensavo di ottenere grandi risultati. Avevo appena finito di pronunciare quei luoghi comuni della consolazione che fratel Ugo ricominciò a piangere – come una vera fontana che le raffiche di sabbia non asciugavano più – emettendo anche piccoli gemiti di cane che abbaia alla luna. A ogni buon conto gli assestai ancora qualche pacca ripetendogli: «Bisogna conservare la fiducia». Di colpo, senza preavviso, si gettò su me e mi strinse tra le sue braccia. Non sapevo più dove mettermi. In ogni modo ero completamente immobilizzato. Ugo mi stringeva con foga farfugliando: «Grazie, fratello mio, grazie di esserci… grazie…» Facevo fatica a respirare. Le sue lacrime mi colavano sul collo. Una buona parte della mia guancia sinistra gli serviva per soffiarsi il naso. Impossibile dubitare della sincerità dei suoi gesti. Neanche cinque minuti dopo aveva ritrovato tutta la sicurezza della sua voce: «Hai ragione, mi disse. Non devo lasciarmi abbattere. Le tue parole mi hanno rinvigorito! Mi hai richiamato alla fiducia e questo è bastato a scacciare tutte le nuvole che si accumulavano nella mia anima! Ascolta: il vento si calma. Sento salire in me un'esultanza strana. Che cosa abbiamo da perdere, no? Allora tutto è grazia! Mi hai fatto sentire questo!»
Mi abbracciò ancora, probabilmente incrinandomi una costola. Ma non lasciai trasparire niente del mio dolore fisico né del mio più grande abbattimento morale. Appesi al mio viso un sorrisetto pieno di modestia comprensiva: «Non sono io, è lo Spirito Santo che ti consola». Fratel Ugo annui con la testa, inspirando e schiacciandomi con un largo sorriso senza trucchi.
Il vento era cessato ma qualcosa continuava a fischiare nei miei timpani. Le mie umiliazioni di quel giorno non erano ancora finite. Avevamo deciso di accamparci in quella anfrattuosità rocciosa: le emozioni erano state forti e la burrasca ci aveva talmente storditi che il sonno non tardò a prenderci. Ma ecco che nel mezzo della notte, mentre sognavo di essere pacificamente a Parigi, nel mezzo di una discussione con un grande professore cattolico di fenomenologia della Sorbona, fui fulminato da un dolore che partì dall'interno della coscia e mi lacerò fino al cranio come un lampo blu.
Il mio grido dovette pietrificare anche le bestie selvagge più feroci. Io stesso mi sentivo paralizzato, come se i miei arti inferiori e il mio bacino fossero diventati di ghiaccio: «Che succede?» gridò Ugo svegliato di colpo. « Non lo so… Ho un dolore terribile alla coscia destra… Non riseco più a muovermi…».
Fratel Ugo riattizzò il fuoco con i rami poi prese un tizzone per illuminare le mie gambe: «Che guaio… Un serpente ti ha morso… Ebbene non resta che una cosa da fare…». Non ebbi il tempo di dire ahi che si attaccò alla mia coscia e si mise ad aspirare il morso. Si rialzava a intervalli regolari, sputava e poi riprendeva coscienziosamente la sua suzione. Il suo gesto era molto professionale. Mi sembrò tuttavia che ci mettesse una certa enfasi, per manifestarmi la sua gratitudine per averlo riconfortato. Me la cavai con una forte febbre e una claudicazione per tre giorni: «Zoppichi come Giacobbe dopo il combattimento con l'angelo» mi diceva fratel Ugo credendo di farmi piacere. Non riuscivo più a guardarlo in faccia. Ce l'avevo anche col serpente. Ero arrabbiato pure con il Creatore per non avermi fatto abbastanza agile da potermi aspirare il veleno da solo. Ugo mi aveva salvato la vita e io avrei dovuto portare quel fardello per il resto dei miei giorni.
(21, continua. Traduzione di Ugo Moschella)
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