martedì 4 luglio 2006
La vecchiaia è triste non perché cessano le gioie, ma perché finiscono le speranze. È una persona molto anziana; eppure non ha perso il gusto della lettura, della ricerca, della vita. Ogni tanto vado a trovarla anche perché ogni volta torno a casa con una citazione per quel "Mattutino" che questo signore legge ogni giorno e talora commenta scrivendomi. Ieri, lasciandomi, mi ha parlato della sua vecchiaia ormai molto avanzata, mi ha ripetuto una "massima" di La Rochefoucauld che già conoscevo - «pochi sanno essere vecchi» (sì, invecchiare bene è un'arte e un impegno morale) - e ha aggiunto un'altra frase, quella che ho sopra citato. Ha anche cercato l'autore, lo scrittore francese Jean Paul, e l'opera da cui è estratta, Titano. La considerazione è illuminante. Si è vecchi non quando si è solo avanti negli anni, ma soprattutto quando si perde ogni speranza e attesa. In questa prospettiva si riesce a scombinare le carte della cronologia, perché ci possono essere giovani precocemente invecchiati proprio per la loro aridità: hanno piaceri, corpi sani, membra agili, possibilità di vita, eppure non trovano più nessun senso, non hanno progetti, puntano solo a tirar mattina tra una discoteca e l'altra, per poi piombare in una sorta di atonia totale. Ecco perché è necessario sorvegliare sempre questa malattia dell'anima, più che del corpo, che rende vecchi. Ricordo ancora dal liceo un verso della canzone Spirto gentil di Petrarca: «I vecchi stanchi ch'ànno sé in odio e la soverchia vita». È il ritratto icastico di una nausea interiore che già aveva provato un sapiente biblico, il Qohelet: «Verranno gli anni in cui dirai: Non ci provo alcun gusto!» (12,1).
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: