giovedì 23 maggio 2019
Se dovessimo individuare una testimonianza della ricerca delle beatitudini nella contemporaneità, probabilmente non ci verrebbero in mente lo scrittore statunitense Jack Kerouac e la cosiddetta beat generation. Ma c'è, in questo nostro tempo di disincontri, più inquietudine spirituale, più sete di assoluto di quanto noi non pensiamo. Pare, ad esempio, che sia stato Kerouac stesso a coniare l'espressione beat generation. Ora, il termine beat, che ha più di un'accezione, è comunque la prima parte della parola beatitudine, e questo ci obbliga a immergerci nelle radici cattoliche di Kerouac, che sono così evidenti in larga parte della sua opera. In una delle sue pagine diaristiche scrive: «Dio, devo vedere il tuo volto questa mattina, il tuo volto attraverso i vetri polverosi della finestra, fra il vapore e il furore; devo sentire la tua voce sopra il clangore della metropoli. Sono stanco, Dio».
In un interessante volume dal titolo rubato da una canzone di Bruce Springsteen, Hard to Be a Saint in the City: the Spiritual Vision of the Beats, Robert Inchaust scrive che Jack Kerouac è stato uno dei più umili e devoti scrittori americani del XX secolo. E che desiderò essere, più di un Philip Roth, una versione jazz dei grandi mistici. In molti modi, dobbiamo riconoscerlo, il cuore umano è una zattera in fiamme in direzione dell'infinito.
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