
“I soldi non fanno la felicità” è una sentenza arcinota. Ma allora, che cos’è che fa la felicità? A questa domanda, antica e continuamente dibattuta, dà una risposta chiara e netta il libro della Sapienza, uno dei più tardivi dell’Antico Testamento, tanto che a essa deve il suo titolo: la felicità viene dalla sapienza. O, più precisamente, l’infelicità viene dall’ignorarla, come il libro spiega con quella che suona come una beatitudine all’incontrario: «È infelice chi disprezza la sapienza e l’educazione. Vana è la loro speranza e le loro fatiche inutili, le loro opere sono senza frutto. Le loro mogli sono insensate, cattivi i loro figli, maledetta la loro progenie» (Sap 3,11-12).
La sapienza non è solo un concetto teorico e un tantino aereo: nella Bibbia, questa è innanzitutto una qualità pratica, la capacità di trovare i mezzi adeguati per i propri obiettivi, un’abilità nel portare a termine un’impresa. Mancare di tale competenza significa rischiare il fallimento su ogni piano, professionale come relazionale. Ma la vera sapienza non è solo una questione di agilità o di sapersela cavare: la si acquisisce conoscendo il mondo in profondità, in ciò che gli dà il suo senso e la ragion d’essere, quell’amore di Dio che è, al tempo stesso, la sua causa e il suo segreto. Non saperlo non significa solamente correre il rischio di capire male il mondo, ma soprattutto correre il rischio di lavorare per tutta la vita invano.
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