venerdì 30 novembre 2007
La morte è il riposo, ma il pensiero della morte è il disturbatore di ogni riposo.
Eccoci giunti alla fine del mese di novembre, un tempo che - a causa della solennità del 2 novembre - è stato connesso tradizionalmente ai defunti e ai cimiteri. Vorrei, perciò, concludere anch'io con un «pensiero sulla morte». In realtà, il testo che ho citato contiene una diversa espressione: «il pensiero della morte» ed è altra cosa. Ma prima di tutto assegnamo la citazione al suo autore, uno scrittore così turbato e travolto da quel pensiero da essere finito suicida in un albergo nel caldo di un agosto torinese del 1950. Si tratta di Cesare Pavese e la considerazione molto pertinente è desunta dal suo diario, Il mestiere di vivere, pubblicato postumo nel 1952.
Sì, è proprio vero: tante volte c'è forse sfuggita la frase «Meglio morire che tirare avanti così!», nella convinzione di trovare finalmente pace e riposo. Ma quando si pensa seriamente alla morte, allora la musica cambia. Un fremito gelido s'insinua in noi, se ci immaginiamo distesi nel rigor mortis. Il pensiero di una realtà così «naturale» com'è il morire ci sconvolge e disturba il nostro quieto vivere, tant'è vero che si fa di tutto per cacciare dalla nostra mente
questa meta a cui siamo votati e che forse non è poi così remota come vorremmo. Eppure già il grande Montaigne invitava a «pre-meditare la morte» come principio di libertà. Questa riflessione, infatti, eliminerebbe tante servitù, ci darebbe una scala diversa dei valori, ci libererebbe da paure inutili e da meschinità, ci fortificherebbe nell'agire in modo giusto, degno e pieno. Il pensiero della morte è, quindi, un «disturbatore» necessario.
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