Il Pavese che non ha mai avuto eredi
venerdì 28 maggio 2021
Ingiustamente scarsa la fortuna toccata a un coraggioso libro poetico come Lavorare stanca di Cesare Pavese. Fu pubblicato nel 1936 per le edizioni di “Solaria”, la rivista fiorentina più cosmopolita fra gli anni Venti e Trenta, ma non ebbe successo. Rispetto alla “poesia pura” di matrice simbolista e poi all'ermetismo, che erano al centro degli interessi di “Solaria” e dell'ambiente fiorentino, il prosaicismo realistico di Pavese andava in direzione opposta. Il successo arrivò più tardi, dopo il 1945, quando la situazione si rovesciò: l'esoterismo ermetico e “la poesia per la poesia” erano forme stilistiche e ideologie letterarie messe sotto processo in nome di un nuovo impegno sociale e politico che richiedeva maggiore aderenza alla realtà e un linguaggio più largamente accessibile. Il pendolo fra avanguardie formalistiche e impegno realistico continuò a oscillare. Ma un astuto dialettico come Edoardo Sanguineti, marxista ortodosso e capofila neoavanguardista anni Sessanta, sembrò escogitare la formula risolutiva: secondo cui l'avanguardia è la forma più coerente e storicamente adeguata di realismo, perché la realtà moderna è caotica, schizoide, assurda, insensata, sfuggente e per essere rappresentata con fedeltà ci vuole una forma che le somigli. Comunque credo che lo scambio fra poesia e prosa che Pavese sperimentò vada periodicamente riattivato, soprattutto quando il codice stilistico della poesia diventa autoreferenziale, anticomunicativo e troppo povero di contenuti riconoscibili. Quello che tuttavia conta non sono le intenzioni ma i risultati. Ora Lavorare stanca ricompare nelle edizioni InternoPoesia (pagine 220, euro 12,00). Nella sua introduzione Alberto Bertoni attualizza la scandalosa, audace prosaicità poetica di Pavese, notando tra l'altro che perfino due critici come Gianfranco Contini e Pier Vincenzo Mengaldo hanno pesantemente denigrato il libro con formule come queste: «opera populista di un solipsista» (Contini) e «narcisismo ed egotismo insopportabilmente truccati di populismo» (Mengaldo). Mi sembra davvero troppo. È vero che l'americanismo di Pavese e Vittorini pecca di mimetismo manieristico (ma non era già manieristica anche la prosa di Gertrud Stein e Hemingway?). Forse la “poesia racconto” e lo “stile oggettivo” di Lavorare stanca con il loro ruvido e un po' grigio moralismo hanno avuto soprattutto un difetto di cui non sono responsabili: quella ricerca è stata abbandonata quasi del tutto e di personaggi raccontati in versi come quelli di Pavese ce ne sono stati in seguito ben pochi.
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