sabato 17 febbraio 2007
È inutile chiedere a un nomade consiglio su come costruire una casa. Il lavoro non arriverà mai alla fine. Si era definito «collezionista di luoghi»: lo scrittore inglese Bruce Chatwin (1940-1989) è stato, infatti, un infaticabile vagabondo e il succo di questo peregrinare senza sosta è stato riversato nei suoi libri che miscelano réportage e fantasia, storia e autobiografia, resoconto e racconto. Nella sua opera Le vie dei canti (1987) egli cita la frase sopra tradotta attribuendola a un «Libro delle odi» cinesi. È facile intuire la verità di questo aforisma: il nomade ama ciò che è «in-finito» e quindi è arduo costringerlo a interessarsi di ciò che è «finito», come dev'essere appunto una casa stabile. Proviamo, allora, a metterci dal suo punto di vista perché serve forse a temperare il nostro attaccamento a una cosa, a una casa, a un luogo. Certo, c'è un valore anche nella stabilità, tipica del sedentario: essa rimanda alla continuità, alla solidità, ai punti fermi da acquisire e custodire. Tuttavia c'è il rischio di rimanere abbarbicati alla realtà finita e circoscritta, come una cozza allo scoglio. Si perde il gusto della ricerca e dell'attesa, si dimentica che il respiro dell'uomo tende verso l'infinito, si temono i grandi orizzonti. Ecco perché talora è
importante viaggiare. Un altro grande scrittore come l'austriaco Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) diceva che «l'uomo scopre nel mondo quello che ha dentro di sé, ma ha bisogno del mondo per scoprire quello che ha dentro di sé». È, però, altrettanto vero che, viaggiando, si scopre anche quello che è diverso da sé e così il cuore e la mente s'allargano, andando oltre il perimetro del proprio piccolo mondo.
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