venerdì 25 maggio 2007
L'ira dell'uomo eccellente dura un momento, quella dell'uomo mediocre due ore, quello dell'uomo volgare un giorno e una notte, quella del malvagio non cessa mai. Nella letteratura indiana esiste un genere letterario denominato subhashita che definisce le strofe costruite con aforismi di indole morale. Una di queste raccolte è la Subhashitarnava, composta nel XVII sec. nell'attuale Sri Lanka. Ne sto leggendo una versione inglese dalla quale estraggo questa significativa riflessione sui diversi gradi di durata della collera. Questa gradazione, come è evidente, è inversamente proporzionale alla grandezza di una persona. Tanto più alta è la nobiltà spirituale di un individuo tanto più breve è la sua ira. Nel suo Mattino (prima parte del poema Il giorno) il nostro Parini similmente osservava che «quasi foco di paglia è il foco d'ira in nobil cor». Al contrario, chi è gretto, meschino o semplicemente cattivo alimenta senza posa quel fuoco, seminando attorno a sé cenere e morte. L'ira che si inturgidisce e non si spegne, infatti, crea solo distruzione e oscurità. A questo punto vorremmo, però, aggiungere una distinzione: anche se spesso usati come sinonimi, in realtà collera e sdegno non sono del tutto sovrapponibili. La furia dell'ira che assalta l'altro è un conto; lo sdegno che denuncia il male e si schiera dalla parte della giustizia calpestata è una virtù. E questo ce lo insegnano per primi i profeti. Ma anche lo stesso Cristo non ha esitato a scagliare i suoi «Guai!» contro tutte le ipocrisie e le perversioni morali del suo tempo (si legga, ad esempio, Matteo 23). Impariamo, allora, non solo a spegnere la fiamma dell'ira ma anche ad alimentare quella dello sdegno morale, del disgusto per la corruzione, del giudizio etico.
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