venerdì 23 febbraio 2018
«S'alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e… al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un'inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine».
Siamo nel capitolo 21 dei Promessi Sposi. Un brano al quale spesso ritorno, ogni volta ricavando qualcosa di nuovo. È il momento fatidico in cui l'Innominato sembra deciso a suicidarsi. Tutta la sua vita scorre davanti a lui in questa notte insonne. C'è ancora il vecchio uomo: quello che pensa con raccapriccio all'oltraggio che potrebbe subire il suo cadavere dopo la morte. Ma c'è anche il nuovo uomo: quello nato dopo aver visto lo sguardo supplichevole di Lucia.
Troppo spesso la conversione dell'Innominato è stata giudicata schematica. In realtà, mentre molti scrittori del Novecento hanno inseguito il mito del monologo interiore, nella convinzione di poter simulare le pulsioni dell'inconscio, Manzoni non si fa questa illusione. Resta all'esterno, perfettamente consapevole dei propri limiti: con un stile unico ci consegna, nella nostra lingua, il referto di un dissidio antico quanto l'uomo fra ciò che siamo stati e ciò che potremmo essere ancora.
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