martedì 11 aprile 2017
Una delle obiezioni che il fronte pro-utero in affitto oppone più spesso al variegato mondo resistente (cattolici, femministe, ambientalisti, anarchici anti-biotech) è che una donna è libera di fare del suo corpo ciò che vuole: «Non si era detto: il corpo è mio?». Appunto: il corpo è mio, non del mercato che «me lo gestisce lui», biobusiness che supera i 3 miliardi di dollari, «inserimento del ciclo vitale nella logica della mercificazione capitalista» (Pietro Barcellona).
Quel corpo che è mio non è mai del tutto mio. È sempre anche di qualcun altro. È un corpo-io che nasce vive e muore impigliato in una fitta rete di relazioni che lo fanno essere, e senza le quali non consisterebbe. Prima tra tutte quella con la madre: talmente stretta che il due tra la donna e il figlio si fa indistinguibile dall'uno, e nessun mercato può tagliarla.
E poi: il corpo sarà anche mio, ma il figlio che metto al mondo non è mio. Un figlio non è un oggetto di proprietà, appartiene a se stesso e al mondo. Posso accettarlo e amarlo o posso rifiutarlo, e in quel caso sarà reso adottabile. Qualcun altro lo amerà. Ma non posso decidere a chi venderlo e nemmeno - sì, ciao - a chi donarlo. Senza, oltretutto, alcuna garanzia sull'acquirente.
Il tempo degli umani in vendita è alle spalle, ma minaccia costantemente di tornare.
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