martedì 22 novembre 2011
Cecilia parlava spesso col cielo / e il cielo non le rispondeva, non poteva / e nel cielo Cecilia / continuò a rispecchiarsi / fino al giorno in cui la sua immagine / coincise con il celeste specchio.

Dolce e intenso è questo ritratto di una Cecilia che potrebbe trasfigurarsi anche nella santa che oggi la liturgia celebra. A disegnarlo è un poeta, Antonio Porta (1935-1989), un cantore fine dell'umanità semplice e quotidiana. I versi mi rimandano spontaneamente a una considerazione di una donna di straordinaria intelligenza e spiritualità, la scrittrice ebrea Simone Weil. Per quanto cerchiamo di saltare o di volare in alto — diceva — noi non riusciremo mai a raggiungere il cielo. Se, invece, ci mettiamo a contemplarlo e a fissarvi il nostro sguardo, il cielo scenderà, ci avvolgerà e ci abbraccerà. Perché, continuava, citando il grande tragico greco Eschilo, «il divino è senza sforzo»: l'incontro con Dio è, infatti, dono, è grazia.
Purtroppo noi ci siamo curvati sulla terra, ci dedichiamo esclusivamente alle cose, non possiamo perdere tempo fermandoci — nel silenzio di una notte — a guardare quegli spazi infiniti che turbavano Pascal e Leopardi e che evocano il mistero di Dio e dell'uomo, come cantava il Salmista: «Quando il cielo contemplo e la luna e le stelle che accendi nell'alto, io mi chiedo davanti al creato: cos'è l'uomo perché lo ricordi?» (8, 4-5). Chini sulle realtà materiali, senza mai uno sprazzo di luce, di contemplazione, di infinito, diventiamo simili a oggetti, governati dalla sola legge di gravità che ci appiattisce alla terra. Eppure noi viventi siamo fatti della stessa materia delle stelle e alle stelle va implicitamente il nostro “desiderare” (de sideribus). Un altro poeta, l'inglese William Blake (1757-1827) ci invitava a «vedere il mondo in un granello di sabbia, / il firmamento in un fiore di campo, / l'infinito nel cavo della mano, / l'eternità in un'ora».
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