venerdì 8 giugno 2007
Al passaggio di un ricco cavaliere, pieno di sussiego, troneggiante su di un destriero bardato di tutto punto e con un'armatura luccicante, tutti s'inchinavano in segno di rispetto per cotale personaggio. San Francesco di Sales, senza scomporsi, esclamò a voce alta: «Poveretto, non si rende conto che stanno salutando il cavallo e l'armatura e non lui!». Devo questo aneddoto a una gustosa raccolta di aforismi commentati, allestita a due mani da un teologo altoatesino, Paolo Renner, e da un medico, Giorgio Dobrilla, e intitolata Homo Sapiens? 2 (ed. Ancora; il numero ricorda che si tratta di un secondo volume; al precedente abbiamo già attinto in passato). Raccomandiamo ai nostri lettori quest'opera spiritosa e spirituale al tempo stesso, anche perché i proventi del libro vanno a un progetto di adozioni in Africa e in Brasile. Ma ritorniamo al tema proposto dal raccontino, quello della superbia, primo vizio capitale. È facile intuire l'aspetto pericoloso di questo peccato: si pensi solo alla tracotanza dei dittatori, alle prevaricazioni degli orgogliosi, pronti a tutto pur di prevalere. C'è, però, un aspetto che il famoso vescovo di Ginevra mette in luce con la frustata inflitta a quel cavaliere altezzoso. Il superbo spesso non si accorge di cadere nel ridicolo. Diceva una scrittrice inglese dell'Ottocento, George Eliot, che il superbo è «come un gallo che pensa che il sole sorga per sentirlo cantare». Le persone presuntuose allargano la ruota come il pavone ma, appena parlano, emettono come quel volatile un suono stridulo, cioè rivelano il vuoto, la boria, la vanità che alberga nelle loro menti e nelle loro anime, E, così, non s'accorgono dell'ironia che le accompagnano, rendendosi fin patetiche e ridicole. Il regista televisivo Marcello Marchesi scherzava: «La superbia andò a cavallo e tornò in yacht».
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