martedì 9 agosto 2011
I pesci rossi nella palla di vetro nuotavano con uno slancio, un gusto di inflessioni del loro corpo sodo, una varietà di accostamento a pinne tese, come se venissero liberi per un grande spazio. Erano prigionieri. Ma si erano portati dietro in prigione l'infinito.

In una fiera di paese, nel territorio ove sono in vacanza, a sorpresa trovo ancora in vendita o come premio di non so quale gara alcune bocce con pesciolini rossi. Non so quanto sia legittimo questo commercio, ma per me — e penso per non pochi lettori — è come una ventata che mi porta i profumi e i colori del passato, quando pullulavano questi mini-acquari che si ottenevano qualora si fosse stati capaci di inserirvi con un lancio a distanza una pallina da ping pong. Ho così cercato il romanzo di uno scrittore ormai dimenticato, Emilio Cecchi, intitolato appunto Pesci Rossi (1920), e ne ho proposto proprio l'inizio che contiene una riflessione acuta.
Quei pesciolini si muovono con eleganza anche in questo piccolo spazio, quasi fossero nell'immenso oceano. Sono, in realtà, prigionieri; eppure essi hanno portato con sé il respiro del mare, delle distese infinite, e i loro arabeschi di nuoto sono come la memoria di quella libertà che è rimasta attaccata a loro, anzi, dentro di loro. È facile sciogliere la metafora. Si può essere condannati su una sedia a rotelle, oppure votati a un'esistenza monotona e ristretta, o persino relegati in una cella, ma l'anima può librarsi oltre, nello spazio infinito del cielo, nella cavalcata della fantasia, nel volo verso altri orizzonti che la lettura o il pensiero rende possibile. La reclusione è prima di tutto una questione dello spirito, come lo è la libertà.
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