sabato 20 dicembre 2003
Avevo fame e ho ancora fame. Avevo sete e resto assetato. Ero straniero e non trovo una terra amica. Ero carcerato e nessuno mi ha liberato. Ero nudo e continuo a vestirmi di freddo. Ero malato e muoio solo. Avevo dubbi e nessuno mi aiuta a capire. Ero angosciato e nessuno mi dà speranza. Ero bambino di strada e solo la strada con le sue violenze mi accoglie. L'avvicinarsi del Natale mobilita i buoni sentimenti: si moltiplicano gli appelli al gesto di carità, in tutte le prediche domenicali e natalizie non mancherà la menzione degli ultimi della terra, un fremito di generosità pervade tutti i cristiani. Tutto questo è da lodare, ma è anche da riportare ai suoi limiti, anzi, al tentativo di essere una pia autogiustificazione. Ci si illude di cancellare, così, con un colpo di spugna apparente egoismi ben più consolidati, di eliminare tante recriminazioni e rigetti nei confronti degli stranieri, di sostituire l'impegno sociale più coerente e continuo. A darci una scossa per evitare l'alibi dell'offerta natalizia e a riportarci a un compito più costante di generosità verso il prossimo, sia pure nei limiti delle proprie capacità, è Ernesto Olivero, il noto fondatore del Sermig, il Servizio Missionario Giovani, uno che ha le carte in regola, con l'impegno di una vita, per ricordarci e riattualizzare le parole di Cristo: «Avevo fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato» (Matteo 25, 42-43). Sono parole che non cessano mai di risuonare in questo mondo indecente in cui i diritti e la dignità sono così spesso calpestati, in cui gli sprechi del benessere e i costi astronomici delle armi sono uno schiaffo continuo a Cristo e ai poveri. La carità non dev'essere solo natalizia ma un filo rosso costante dell'esistenza cristiana.
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