Gli scacchi venduti: la bellezza dello sport prevarrà ancora
mercoledì 29 novembre 2017
Certe volte viene davvero voglia di arrendersi, alzare le mani, sventolare bandiera bianca. Quando chi ha speso la propria vita a occuparsi e raccontare di sport come strumento privilegiato per mettere a fuoco una certa idea di stare al mondo legge un dispaccio dell'agenzia Ansa che parla di un'inchiesta su partite di scacchi comprate e vendute (con squalifica di quattro "campioni"), la tentazione è quella di concordare la resa. Si perde la speranza, ci si lascia travolgere per un po' dallo sconforto. Già non passa settimana senza leggere di atleti che prendono a schiaffi i loro avversari sul campo da gioco, di risse di genitori davanti ai propri "pulcini" (di categoria calcistica e di fatto), di arbitri minacciati, di doping e di truffe. Tuttavia, con grande sforzo, si resiste.
Se, tuttavia, sul cellulare ti arriva la notifica di una notizia che riguarda una sorta di tangentopoli degli scacchi a Montebelluna, lo sconforto prende il sopravvento. "Non c'è scampo", viene naturale pensare, come se ci fosse un demone che si impossessa del cuore e del cervello degli esseri umani (adulti) quando giocano. Gli scacchi sono una disciplina particolarmente affascinante: pura tattica, zero fisicità. L'agonismo è tutto incanalato nelle 64 caselle bianche e nere che permettono di sviluppare un numero di combinazioni praticamente infinito. Ci sono storie fantastiche di grandi interpreti di questo gioco, personaggi spesso stravaganti e geniali raccontati, nelle loro complicate dinamiche mentali, da un grande scacchista-psicologo: Reuben Fine, autore di un libro che si intitola proprio: La psicologia del giocatore di scacchi.

«In genere giocando non si parla – sostiene Fine –, ma talvolta si ha una curiosa eccezione in coloro che, in partite estemporanee, arrivano all'estremo opposto, e non smettono mai di parlare: c'è chi recita versi di Lewis Carroll, chi dice tiritere che non hanno senso nemmeno per loro stessi. Uno, per esempio, quando dava scacco, diceva: Shminkus, krakustyfus mit plafkes schrum schrum. Un altro: Andiamo a Vera Cruz con quattro acca».
Insomma, da una parte è come se il cervello umano denunciasse la propria limitatezza di fronte al numero mostruosamente gigantesco di possibili mosse, dovendone scegliere solo una, tanto da far andare i neuroni in tilt come i vecchi flipper. D'altro canto quelle frasi senza senso sembrano significare una pulsione, un emergere dell'io bambino che sfugge al principio di razionalità esclusiva del gioco, di fronte alle sue infinite possibilità.
Infinito che non bastava al maestro cubano José Raul Capablanca, uno da cui Reuben Fine raccontava di essere stato battuto «spietatamente». Capablanca fu il primo a sostenere che la scacchiera era diventata troppo piccola. Come con le donne, per le quali non appena conquistate perdeva interesse, il maestro dell'Avana aveva conquistato la scacchiera, arrivando al punto di pensare che non avrebbe mai più perso una partita. Propose allora di crearne una nuova, con cento case e con l'aggiunta di quattro pedoni e due pezzi per colore, con movimenti inediti: regine saltellanti come cavalli, alfieri capaci di cambiare casa, torri che si muovono sulle diagonali, chissà.
Chissà in quali dimensioni Capablanca aveva visualizzato il movimento di quei suoi pezzi speciali e chissà in quali dimensioni si muovono invece questi maestri letteralmente da quattro soldi, capaci di fare mercimonio, per non più di 200 euro, di vittorie e sconfitte concordate. Viene voglia di arrendersi, dicevo. E invece no. Perché per ognuno di questi pseudo-campioni capaci di volare così basso, scacchisti o sportivi di qualsiasi tipo, ci sono migliaia e migliaia di ragazzi che, ogni giorno, giocando con una palla, nuotando in una piscina, pedalando su una salita, indossando un kimono, tirando con un arco e con centinaia di altri gesti simili, belli di una bellezza inattaccabile, ci invitano a non dimenticare mai che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce.
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