sabato 19 marzo 2005
Il lavoro non mi piace - non piace a nessuno - ma mi piace quello che c'è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi, scoprire la propria realtà che nessun altro potrà mai conoscere. La figura di san Giuseppe è inestricabilmente connessa all'idea di lavoro, con la fatica e la semplicità che a esso sono associate. Nonostante il tentativo, forse interessato, di qualche autore di ricondurre il padre legale di Gesù alla categoria dell'imprenditore, i dati evangelici e il contesto sociale ampiamente studiato in ricerche accurate anche recenti vanificano queste ricostruzioni. Dopo tutto, come si spiegherebbe l'ironia dei compaesani di Nazaret che «si scandalizzano» della professione di Giuseppe e del livello sociale della sua famiglia? (Marco 6, 3-4)? Giuseppe ci parla, dunque, del lavoro modesto e comune che spesso «non piace», come osserva il romanziere di lingua inglese Joseph Conrad nella frase sopra citata e desunta dalla sua opera Cuore di tenebra (1902). Eppure è proprio in quell'attività che l'uomo trova se stesso, le sue capacità, la sua funzione nel mondo. È per questo che essere senza lavoro non crea serenità ma insoddisfazione. L'uomo, infatti, dice la Genesi, è stato collocato sulla terra «per coltivarla e custodirla» (2, 15). Il dramma del disoccupato o di chi è costretto a un lavoro alienante e inadatto è quello di non realizzare se stesso. Per questo la figura di Giuseppe ha la sua pienezza proprio nella sua missione semplice di sostegno alla famiglia e di fedeltà al suo compito. E anche se «lavorare stanca», come diceva Pavese, o «non piace», «allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno» (così Voltaire in Candido).
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