venerdì 2 marzo 2018
Sono trascorsi cento anni dalla fine della prima guerra mondiale. Quando scesi nella trincea di Giuseppe Ungaretti, a San Martino del Carso, ebbi la sensazione di sentirmeli tutti addosso. E insieme il desiderio di comunicare tale consapevolezza. Procedevo a testa bassa immaginando il fango, il filo spinato, le bende intrise di sangue, sempre col rischio di essere colpiti dai cecchini. La terra brulicava di animaletti. Guardai oltre la scarpata. I soldati salivano allo scoperto, a gruppi scompagnati, urlando come belve. Gli ufficiali erano isterici. La mitragliatrice spazzava il campo. Tutto questo alimentava l'egoismo, innescando nei combattenti una vitalità ferina. Mors tua, vita mea. Eppure Ungaretti, uomo di pena, scoprì nel buco di roccia dove mi ero acquattato, una verità umana universale. Sotto gli attacchi avversari, comprese, nella crosta del sangue raggrumato, che le radici di un uomo non appartengono soltanto a lui, ma s'intrecciamo con quelle di tutti. Ti basta toccarne una per far vibrare le altre. Quante volte ho cercato di spiegarlo ai miei scolari? Cosa significa la parola fratelli per Ungaretti? Venite qui, ragazzi. Tutti davanti a me, come se io fossi il portiere e voi gli attaccanti. Chi pensa di poter rispondere, alzi la mano!
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