sabato 18 agosto 2012
«Ho capito, per quanto mi riguarda, che la mia ironia non era una conseguenza del mio amor vitae, bensì della mia paura o attrazione o comunque inevitabilità della morte, un modo per prepararla». Alberto Bevilacqua, uno dei nostri grandi scrittori, definisce la natura profonda dell'autentica ironia. Che soprattutto di questi tempi, grazie a una caduta di stile della comicità, nei libri, in televisione, al cinema, può essere fraintesa, e addirittura malintesa, quando la si confonda con il sarcasmo. Radicalmente opposto, basato su rancore e sprezzo, non conoscente sorriso. L'ironia è un atteggiamento che Bevilacqua descrive anatomicamente: nasce dalla coscienza della morte, dalla sua ineluttabilità e inevitabilità. Questo sgomento porta l'uomo fragile a un atteggiamento pessimista erinunciatario, muove l'uomo valoroso a esaltare la bellezza fugace della vita, l'uomo riflessivo a comprenderne la relatività. La vita terrena ha un limite, e quindi è opportuno tenerne conto, non assolutizzare eventi, fatti, persone, ma saperli guardare con un occhio relativista, consapevole della loro natura effimera. Ciò che Bevilacqua però elegantemente omette (e sottende), è che l'ironia, proprio in quanto tale, è anche manifestazione di amore per la vita, accolta nella sua ineffabile fragilità.
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