giovedì 1 dicembre 2005
Il dio Vishnu promise a un suo fedele di esaudire tre e solo tre sue suppliche. L'orante chiese innanzitutto di essere liberato dalla moglie petulante che subito morì. Ben presto, però, quell'uomo comprese la follia di questa richiesta, sentendo la mancanza di quella sua compagna di vita. Implorò, allora, Vishnu di riportarla in vita e così avvenne. Gli rimaneva ormai una sola possibilità di domanda e, non sapendo decidersi, chiese al dio di suggerirgli la giusta invocazione. E Vishnu rispose: «Prega di essere felice di ciò che la vita ti porterà». Abbiamo riassunto una più lunga parabola indiana che ha per tema l'incontentabilità umana. È qui che si annida l'insoddisfazione, è in questa tensione che germoglia l'infelicità. Certo, non si deve vivere lasciando che il fato ci conduca là dove non vorremmo, perché siamo dotati di una libertà, di una volontà e di una capacità di agire. Tuttavia si deve essere consapevoli che la vita fa parte di un più alto e grande contesto che il credente vede affidato alle mani divine. Ecco, allora, un equilibrio da conquistare: cercare con tutte le proprie energie la felicità ma essere anche felici di ciò che si ha e che la vita offre. Non essere rinunciatari ma neppure aggressivi, non precipitare nell'inerzia ma neppure diventare frenetici e isterici. E fare qualche volta di più la preghiera dell'abbandono alla Provvidenza divina, come suggerisce il testo indiano: «Fa', o Dio, che io sia felice di ciò che la vita mi porterà». Senza fatalismi o rassegnazione, ma anche senza ribellioni e proteste infinite. Il poeta greco Pindaro, contemporaneo di Lao-tzu, nelle sue odi Pitiche consigliava: «Non desiderare, anima mia, la vita degli immortali, ma godi a fondo i beni a tua portata».
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