Far vivere la cultura in carcere e far nascere l’idea del ricominciare
venerdì 20 ottobre 2023
Volto e voce dell’informazione italiana, a lungo corrispondente televisivo dagli Stati Uniti, Paolo Aleotti da quasi dieci anni lavora come volontario nel carcere milanese di Bollate. Conduce assieme a dei detenuti, donne e uomini, un laboratorio dedicato al lavoro televisivo e radiofonico, dal nome “Teleradioreporter”. Nella speranza di restituire sulla pagina la polifonia di voci che contraddistingue il lavoro, Aleotti ha deciso di raccontare la sua esperienza in un libro corale (Che sapore hanno i muri, Casa Sirio, pagine 344, euro 20,00). Vi racconta del proposito iniziale che ha fatto da spinta al lavoro («fare radio, televisione e informazione sul metodo Bollate. Con le luci, e senza nascondere le ombre»). Anche, racconta che cosa significhi incontrare settimanalmente dei detenuti, ascoltare le loro storie di vita, le loro testimonianze, confessioni, riflessioni. Uomini e donne italiani e stranieri, persone dalle vite segnate per sempre, e che tuttavia, corroborati dalla sensibilità d’ascolto del loro interlocutore d’eccezione, riescono a trovare le parole per dire pieni e vuoti di quelle stesse vite che si svolgono “dentro”. A leggere le tante storie, una volta di più ci si sofferma a pensare quanta forza di resilienza sia necessaria a sopravvivere in carcere, un luogo dove si è autentici, ma sempre nella consapevolezza che per resistere bisogna anche saper indossare una maschera. Risultato è un diario di lavoro, svolto insieme a persone che hanno sì commesso reati, ma le quali con ostinazione si rifiutano di essere additate come «reati che camminano». Le loro voci possiedono l’umiltà di volere spersonalizzarsi, perdere la singolarità del loro timbro e farsi invece di tutti, rivolte a tutti. Parole mai gridate, ma cariche di una forza che fa sì che oltrepassino muri, sbarre, grate, e raggiungano il mondo “fuori”. Tanto da dare senso rinnovato alla informazione stessa, come quando un detenuto, parlando della trasmissione che va costruendo sotto la guida di Aleotti, dice: «La radio, che di per sé dovrebbe essere soprattutto rumore, diventa invece qualcosa che porta armonia, che porta qualcosa di intelligente. Qualcosa che struttura». Grazie alla trascrizione dei molti e molto variegati interventi, quei detenuti ci sembra di ascoltarli dal vero. Intanto riflettendo su quale grado di valore, quanto vitale e costruttivo, pertenga a un lavoro culturale denso e densamente condotto dentro alle carceri. Luoghi dove, scrive l’autore del libro, «non si finisce, ma si ricomincia» (e qui la citazione è dal Cardinal Martini: «Dopo la sentenza, comincia un’altra storia»). Storie di rinascita. Che pulsano vita, quella vita che, una detenuta dichiara, «diventa anche più bella perché l’hai pagata cara». Che la cultura debba trovare strade per farsi intervento, azione, lo sappiamo in astratto, ma è utilissimo realizzarlo nel concreto. Quando la stessa cultura la si riesce a portare lì dove non c’è, il sapere di cui essa è messaggera cambia di segno: diviene condiviso. Anche benefico: «Il concetto dominante nella nostra società è che i detenuti, che hanno fatto del male, devono stare a loro volta male, anzi, devono stare un po’ peggio di noi perché ci hanno fatto del male», riflette l’autore. Ma ecco, grazie all’attività del laboratorio, il male sovvertirsi in altro, piccole epifanie di positiva costruttività prendere forma. A fronte della soddisfazione personale di costruire un’esperienza del genere, la soddisfazione provata in tanti anni di lavoro come autore radiotelevisivo e corrispondente dall’estero svanisce, impallidisce. Vince la densità delle cose. Infranto l’isolamento della reclusione, nel costruire tutti insieme nuovi format di informazione in carcere ci si coltiva, si impara, si dialoga. Si vive. Modi di fare cultura ancora troppo rari nel nostro Paese, e che dovrebbero moltiplicarsi. Investimenti preziosi, come i risultati che nella durata sanno dare. © riproduzione riservata
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI