venerdì 2 ottobre 2015
​l secondo giorno di ottobre celebra la «Giornata internazionale della nonviolenza», secondo una di quelle inutili e retoriche dichiarazioni dell’Onu (ma sono peggiori quelle dell’Unesco, da tempo "ente inutile" per eccellenza e che tuttavia ha a disposizione schiere di dipendenti internazionali privilegiati) che volle ricordare l’anniversario della nascita di Gandhi, il 2 ottobre 1869. Gandhi fu ucciso da un membro della sua religione contrario alle sue scelte di parità con le altre il 30 gennaio 1948. Ho viva nella memoria la piccola celebrazione di ricordo che facemmo con pochi amici a Roma, in una casa privata per mancanza di meglio, il 30 gennaio di 10 anni dopo, a cui parteciparono però amici della qualità di Lamberto Borghi e di Nicola e Miriam Chiaromonte. Dieci dopo ancora, nel 1968, venne ucciso negli Usa il pastore nonviolento Martin Luther King. Nel ’58, nel ’68, il ricordo di Gandhi era ancora forte in molte minoranze e la nonviolenza aveva molti difensori anche in Italia (da Mazzolari a Milani, da Capitini a Dolci) che in vario modo cercavano di tradurre in pratica i suoi principi, soprattutto quelli della disobbedienza civile, e cioè della traduzione della nonviolenza in politica. Quel che è meno presente nei nonviolenti di oggi – che celebrano questa data anche in Italia con molte belle iniziative, in particolare a Vicenza dove si stampa ancora il foglio fondato da Capitini «Azione nonviolenta» – è proprio questo, la traduzione della nonviolenza in politica. Ma chi fa politica oggi, se non le corporazioni (anche occulte) più forti, con le loro alleanze, secondo interessi che rispondono ad altri criteri che non solidarietà e giustizia?
 Tornando a Gandhi, ancora oggi egli ha molti nemici, e non penso soltanto, come è immediato, ai tanti che predicano e praticano la violenza come strumento di «rivoluzione». Penso agli intellettuali che fanno moine, che evitano ogni pratica sociale di rottura ma che discutono con accigliato accanimento delle pratiche altrui, e decidono – beati loro – chi andrebbe mandato in paradiso e chi all’inferno, convinti di chissà quale autorevolezza d’origine mediatica e universitaria.
Cosa rimproverano a Gandhi? Nientemeno che di aver fatto politica, e cioè di aver dovuto praticare forme di strategia e di tattica tipiche della politica. Eppure è proprio questa la grandezza di Gandhi, quella di aver rischiato l’intervento nella grande politica, addirittura in una rivoluzione. E di essere riuscito a liberare il suo immenso Paese dal colonialismo, ad avergli dato l’indipendenza e leggi, per quanto male o poco applicate, democratiche. Ad aver dato un esempio che è oggi più vivo e indispensabile che mai, di fronte alle immani ingiustizie e alle crescenti barbarie. E se fosse proprio questo il nodo più delicato e la necessità più impellente del nostro tempo: fare politica secondo altri principi che quelli della politica di sempre, rischiando, in quella eterna sfida che è la lotta per la giustizia e per la pace?
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