martedì 18 ottobre 2011
Non bisogna dire di no, bisogna fare di no: per dire che non si deve fare una cosa bisogna farne un'altra positiva.

A un'amica scriveva queste parole apparentemente paradossali: «La malattia prima della morte mi sembra totalmente raccomandabile. Penso che coloro che la ignorano sono privati di una delle grazie di Dio». Sarà proprio un lupus, che le devastava il sistema immunitario, a preparare per anni alla morte, avvenuta nel 1964 non ancora quarantenne, l'originalissima scrittrice cattolica america Flannery O'Connor, dopo una breve ma intensa esistenza vissuta nella fattoria di famiglia ad allevare polli e gli amati pavoni. Il suo primo e forse più famoso libro, La saggezza nel sangue, divenne un film di John Huston; noi, però, oggi abbiamo desunto una sua esortazione da un'altra sua opera, Il cielo è dei violenti. Se la frase della lettera invitava a vivere la sofferenza come un momento di grazia, di purificazione della mente e del cuore, ora Flannery ci spinge a mettere all'insegna della nostra esistenza un motto: «Non tanto dire di no, ma piuttosto fare di no».
Alla retorica della denuncia, pur legittima, dobbiamo opporre il realismo della volontà e delle scelte personali. È una variante dell'accusa evangelica a scribi e farisei ipocriti che «dicono e non fanno» (Matteo 23,3). Asseverare, deprecare, deplorare è, tutto sommato, facile ed è pure necessario. Ma è palesemente insufficiente per frenare l'onda spesso furiosa del male. Boccaccio, nel suo Decamerone, ci aveva già lasciato un altro ammonimento parallelo: «È meglio fare e pentere che starsi e pentersi». Molti, forse anche si pentono e detestano il male compiuto, ma poi "stanno", rimanendo inerti e lasciando che il flusso del peccato prosegua il suo corso. È necessario, invece, rimboccarsi le maniche ed erigere una diga: ad atto perverso un atto di riparazione e di giustizia.
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