domenica 19 febbraio 2017
In una società liberale gli imperativi morali sono ridotti al minimo e sono sostituiti da ingiunzioni temporali, più nascoste ma altrettanto dispotiche. Uno che dichiara: «Tutto è permesso» appare come un liberatore rispetto a un altro che dice: «Devi fare questo»; ma aprire senza freni il campo del possibile impone la bulimia delle esperienze superficiali e la condanna a provare tutto, dispersi e schiacciati sotto la pressione del rendimento orario massimale. In un lasso di tempo uguale o più breve bisogna fare sempre di più, con addosso il panico e l'irrisolutezza di chi considera le cose più contrarie come ugualmente legittime. Così, avendo tutto a portata di mano, non si ha più tempo. E si può allora sentire quella saggezza degli antichi la cui morale consisteva precisamente nel restringere il campo del possibile per concentrarsi sull'essenziale e mettersi al ritmo di una vita che dia frutto. In Accelerazione ed alienazione, Hartmut Rosa insiste sulla connessione produttivista tra un'etica minimale e un rendimento massimo: «La società moderna non è regolata e coordinata da regole normative esplicite, ma dalla forza normativa silenziosa di norme temporali che si presentano sotto la forma di scadenze, calendari e limiti di tempo […] I soggetti moderni possono essere descritti come limitati solamente in minima parte da regole e sanzioni etiche, e dunque "liberi", mentre sono inquadrati, dominati e repressi dal regime-tempo, in gran parte invisibile, a-politico, indiscusso, non teorizzato e inarticolato». Poche affermazioni sono altrettanto significative per caratterizzare la nostra epoca; queste permettono di afferrare certi fenomeni contemporanei senza cadere nell'anacronismo. Il relativismo di oggi, per esempio, è un effetto dell'accelerazione. Non si fonda su una dottrina filosofica e neanche su un appello alla tolleranza, ma su un tempo precipitoso – la tachicardia di esperienze numerose e eccitanti. Tutto deve poter essere detto in breve, sotto forma di pubblicità, e manca la resistenza necessaria per avvicinare veramente il reale. Come ritrovare il tempo umano ? Qual è quel generoso «Tu devi» che possa riaprirci a una temporalità non tranquilla, ma tanto drammatica da far emergere la nostra esistenza come un'avventura e non una sequenza di intervalli disconnessi? In fin dei conti, se c'è un'accelerazione debbono esserci sistemi di riferimento naturali dove ritornare. Quali sono? Ne distinguerò quattro che corrispondono a quattro "ritorni".
1° Ritorno alla nostra condizione di creatura (ferita e riscattata). Riconoscere di essere figli di Dio non è solamente avere l'Eterno dalla nostra parte ma è anche scoprire una solidarietà con tutte le altre creature e sentirsi afferrati nella grande Storia della Redenzione. L'«umano 2.0» vivrà forse più a lungo ma sarà sempre ridotto a un tempo breve, quello dell'innovazione, dell'hype, della volatilità dei sondaggi. Anche avendo meno anni a mia disposizione, la mia esistenza nella fede mi fa abbracciare l'origine e la fine dei tempi, mi conferisce un'ampiezza temporale che mi rende contemporaneo di Adamo e di sant'Agostino, come anche dell'ultimo dei peccatori, perché so che siamo fratelli e condividiamo essenzialmente la stessa condizione. Il tempo non è concesso a chi moltiplica le sue attività o aumenta la sua longevità, ma al semplice mortale che si sente solidale con tutti i mortali che lo precedono e che lo seguono: egli, in una sola ora di adorazione e di prova, prende su di sé in tutta la storia dell'universo.
2° Ritorno alla paternità e alla filiazione. Un immortale di centomila anni ha una temporalità più angusta di quella di un figlio o di un padre, anche se questi morissero giovani. L'apertura estatica al passato come eredità e all'avvenire come avvenimento si opera nella filiazione e nella paternità. In particolare, un padre si preoccupa di un tempo che supera il suo, rivolge il suo sguardo oltre la propria felicità e i propri progetti in direzione dei figli e delle figlie, nella loro stessa libertà, e di ciò che dovranno sopportare quando non sarà più vicino a loro per sostenerli.
3° Ritorno alla terra. L'agricoltura è la prima arte, non soltanto rispetto al corpo che nutre ma anche in rapporto al tempo; essa ci rimanda al ritmo delle stagioni e dei giorni e alla temporalità della fruttificazione che è il modello dalla parabola del seminatore. Nel suo Traité d'économie politique (1803) Jean-Baptiste Say osserva che di tutte le «industrie» umane quella che resiste di più alla suddivisione del lavoro (e dunque al taylorismo) è l'agricoltura: «Non è possibile che un uomo ari la terra tutto l'anno e che un altro invece tutto l'anno raccolga». La ripartizione stagionale dei lavori agricoli permette allo stesso uomo di seguire tutto il ciclo naturale, dalla semina alla mietitura. Di certo, non dobbiamo essere tutti contadini in senso stretto, ma l'agricoltura, e non il trading ad alta frequenza, resta il paradigma di una cultura dove il tempo umano è restaurato.
4° Ritorno alla tavola e al letto. Avrei potuto dire alle "ore" e cioè al ritmo giornaliero scandito dalla liturgia. Ma preferisco, per quanto ci riguarda, basarmi più sul ventre che sullo spirito. La stanchezza e la fame più normali ci riportano periodicamente a letto e a tavola, luogo di solitudine il primo e di convivialità la seconda. E quei due luoghi – mobili fondamentali della casa – ci danno insieme al sole la giusta misura del giorno («Per molto tempo mi sono coricato presto la sera»; è la prima frase – la prima fase – de La Ricerca del Tempo Perduto di Proust).
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