mercoledì 27 maggio 2020
Hanno riaperto i caffè, e alcuni hanno rimesso fuori i tavolini. Nell’aria già calda di questi bellissimi ultimi giorni di maggio sembra di potere dire: siamo fuori, il peggio è passato. Si può addirittura, la sera, bere un aperitivo all’aperto e restare a guardare la strada tornata viva (indimenticabile nella memoria il ricordo di certe sere di marzo, deserte, terribilmente silenziose). In verità però, mi accorgo, non siamo tornati proprio tutti. Qualcuno manca. Per esempio quel signore sui sessanta, vestito modestamente, che vedevo al caffè cinese, seduto a un tavolo, ogni mattina alle sette. Ci eravamo scambiati qualche parola. Mi aveva detto che era bosniaco, venuto in Italia dopo la guerra. Non avevo osato chiedergli perché: aveva occhi buoni, ma segnati dal dolore. Mi sembrava uno molto solo, tanto che a Natale volevo invitarlo da noi. Imbarazzato mi aveva risposto che a casa lo aspettavano. Bene, mi ero detta, però ancora dubbiosa: quelle camicie non stirate, e l’aria trascurata di un uomo che non ha una donna accanto. Comunque, adesso è dall’inizio di marzo che non lo vedo. Non so dove abitasse. Non so a chi domandare. E quei due, marito e moglie, ottant’anni forse, sempre assieme? Andavano ogni giorno al supermercato. Avevano conosciuto mia figlia, ed ogni volta che li incontravo mi chiedevano di lei. E ogni volta il marito salutava il mio cane, che si chiama Rommel, perché quando l’ho trovato cucciolo e vagabondo in un paese del Sud sembrava una volpe. Il vecchio signore si ricordava bene della Volpe del Deserto, e così ogni mattina apostrofava il mio cane: «Come va, Generale?». Ma ora, da mesi, quei due non li vedo. Magari sono andati in campagna, mi dico. Magari sono convalescenti. Ma ancora ieri, niente. E il signore della Bosnia, nemmeno. Ho un dubbio nel cuore. Ogni mattina per strada li cerco, sperando di vederli arrivare.
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