domenica 4 gennaio 2004
Molto spesso camminiamo nelle tenebre, ma lo facciamo con la memoria della luce percepita, di quella luce che sappiamo sgorgare all'istante. Per me è così. Spesso camminiamo nell'oscurità, ma so che la luce deve tornare. Da bambino mi piaceva il passaggio dentro le gallerie, sul treno. Prima o poi si finisce per uscire dal tunnel. Queste parole sono di una scrittrice belga contemporanea, Colette Nys-Mazure, e sono tratte dal libro Le ombre
e i giorni (ed. Servitium). Me le ha inviate un sacerdote bergamasco, uno dei tanti lettori che dialogano con il giornale anche attraverso i loro suggerimenti testuali. L'immagine è semplice e universale, anzi, è quella primordiale del contrasto luce-tenebre, antitesi che apre la stessa narrazione biblica della creazione. Tutti i bambini sperimentano l'incubo del buio e questa esperienza lascia una ferita che mai si rimarginerà. L'oscurità prenderà poi nomi più specifici ed esistenziali come dolore, morte, male, colpa, infelicità. Ma altrettanto viva e incisiva è l'esperienza della luce, della sua potenza, del suo irrompere glorioso e così fiorirà nell'anima l'attesa, la gioia, la vita, il bene, l'amore e la speranza, realtà positive sempre alonate di luce. Ecco, Nys-Mazure ripete un messaggio spesso proclamato non solo dalle religioni ma anche da molte culture: l'ultima parola è quella della luce. Quando si corre nel tunnel, la speranza è sempre quella di intravedere lo sbocco finale luminoso. Anche chi dispera ha in un segreto angolo del cuore l'attesa di essere smentito e di incontrare un barlume di felicità. Nel prologo del Vangelo di Giovanni c'è una frase di solito resa così: «Le tenebre non hanno accolto la luce» (1, 5). Essa, però, può essere tradotta anche in questo modo: «Le tenebre non hanno soffocato la luce».
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