domenica 3 dicembre 2006
Se invece di voltarci indietro, guarderemo avanti, se invece di guardare le cose che si vedono, avremo l'occhio attento a quelle che non si vedono ancora, se avremo cuori in attesa, più che cuori in rimpianto, nessuno ci toglierà la nostra gioia. Si apre oggi davanti ai cristiani il tempo liturgico dell'Avvento, un termine solenne ma suggestivo perché contiene in sé tutto il fremito dell'attesa. Un fremito che la società contemporanea ha smarrito perché è china tutta sul presente, non sa alzare la testa e guardare lontano, verso orizzonti più vasti; certo, più impegnativi ma anche più esaltanti. La Bibbia, si suole dire, è tutta scandita da una proiezione verso il futuro: l'Antico Testamento è proteso verso il futuro messianico ed è per questo che le sue pagine sono piene di viaggi, di movimento, di tensione; il Nuovo Testamento, che pure è la celebrazione di una Presenza divina, finisce con lo sguardo rivolto alla Gerusalemme della speranza e con l'invocazione «Vieni, Signore Gesù!». Ho voluto che a rinfocolare in noi il fremito dell'attesa e della speranza fosse un testimone a noi vicino, don Primo Mazzolari, con queste righe raccolte nel volume La parola che non passa (Dehoniane), righe che nascono da una sua predica. Questo sacerdote, vissuto in tempi ardui a livello sociale ma anche religioso, ha sempre tenuto alto il vessillo della fiducia e dell'impegno. Alla moglie di Lot che si pietrifica nella nostalgia o all'Israele del deserto aggrappato alla triste abitudine della schiavitù, si oppone l'occhio che mira alla terra promessa, anche se lontana, si sostituisce il «cuore in attesa» che è l'unico a battere realmente e quindi a far vivere.
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