mercoledì 28 settembre 2005
Metti, Signore, nei nostri cuori, desideri che tu possa colmare. Metti sulle nostre labbra preghiere che tu possa esaudire. Metti nelle nostre opere atti che tu possa benedire. La prima impressione che genera questa bella preghiera della liturgia mozarabica spagnola ci riconduce alle parole di s. Paolo: «Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare» a Dio quando preghiamo. Tuttavia - continua l'Apostolo - «è lo Spirito stesso a intercedere con insistenza per noi» (Romani 8, 26). Ecco, allora, la necessità di lasciare spazio allo Spirito perché ci guidi in una preghiera che non sia meramente "economica" così da impetrare solo vantaggi, doni, successi. Più che implorare "grazie" dovremmo chiedere la "grazia" divina che trasforma cuore e vita. Ma vorremmo porre l'accento su un altro aspetto di questa invocazione appartenente a una liturgia cattolica locale com'è quella mozarabica. Nella preghiera vengono evocati e coinvolte tre realtà corporali: il cuore, la bocca, la mano ("opere"), proprio come si fa nel culto ebraico che, attraverso il movimento del corpo, fa sì che tutto l'essere lodi Dio. «Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale», scrive suggestivamente Paolo ai Romani (12, 1). La preghiera deve intridere l'essere intero. Bellissime sono le parole di Isacco di Ninive (VII sec.): «Che dorma o vegli, la preghiera non si separa dal fedele. Mentre mangia, beve, riposa, lavora, mentre è sprofondato nel sonno, il profumo della preghiera esala spontaneamente dal suo cuore».
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