venerdì 11 dicembre 2020
A volte ci mancano le parole per pregare. Stiamo davanti a te, Signore, senza sapere bene, in una povertà che fa male. Apriamo e chiudiamo le mani in un monologo muto, leviamo il nostro sguardo distrutto, ci sentiamo perduti, nella stessa smisurata distanza che il figlio prodigo sperimenta nella parabola. Non ti chiedo, Signore, di eliminare questo vuoto di colpo. Ti chiedo di illuminarlo. Che non abbiamo timore di rimanere, poveri e silenziosi, davanti a te. Che non consideriamo inutile questa preghiera fatta e rifatta solo di frammenti, ritagli, singhiozzi. Che non ci sottraiamo troppo in fretta al peso di quello che ci schiaccia. Insegnaci, piuttosto, a rendere quest'ora della vita un'ora di sapienza. Le parole che diciamo sono sempre, più che parole, l'espressione del desiderio dell'altro che noi proviamo. Qualsiasi cosa noi diciamo, in fondo la diciamo per avvicinare l'altro o trattenerlo presso di noi, per ritardare o annullare la sua assenza, per dire quanto egli sia indispensabile alla nostra stessa esistenza. E che cos'è la preghiera se non proprio questo, la costruzione incompiuta e fragile di una relazione vitale? Nella preghiera, Dio passa dalla terza alla seconda persona: non più un “lui” o un “ciò”, si presenta a noi a come un “tu”. Acquista in tal modo la prossimità di un volto. Di un volto che ci ama fino alla fine.
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