giovedì 17 dicembre 2020
La psicologia (e soprattutto la psicoanalisi) dà grande importanza al tema della soggettività. Ma per il cristiano sottolineare il valore dell'Io apre anche delle contraddizioni: come conciliare infatti l'esigenza di dare valore al proprio Io con quella rinuncia a se stessi più volte dichiarata come necessaria nei Vangeli?
La grande maggioranza dei libri di formazione cristiana ci porta nella stessa direzione: basta leggere un classico come L'imitazione di Cristo per trovare fino dalle prime pagine il ripetersi di parole come ubbidienza, sottomissione, umiltà, rinuncia, fuga dall'ambizione. Sono tutte parole che alla nostra sensibilità suonano antipatiche, perché le colleghiamo a una soffocante mancanza di gioia e di libertà. Dove possiamo collocare in questo contesto l'autostima, la capacità di autoaffermazione, la libertà di scelta, la gioia di vivere? Eppure, il cristianesimo non è affatto la religione triste dei rassegnati: è al contrario la religione dell'incarnazione, di un Dio che ha gioito, pianto, mangiato, abbracciato come noi, che si è emozionato come noi, che si è persino arrabbiato come noi. Una religione che chiede a ciascuno di essere nella vita un protagonista concreto e creativo, di far fruttare i doni di cui è portatore per rendere il mondo un posto migliore. Forse può aiutarci il riflettere sul lungo tempo di silenzio che ha preceduto la breve vita pubblica di Gesù; trent'anni di vita "normale", di lavoro comune: anni che forse possiamo anche pensare come la preparazione e la maturazione di un Io così forte e così libero da costituire per sempre il modello umanamente più alto. Un Io forte e un Io pienamente libero, quello di Gesù: capace di affermare con sicurezza, di andare controcorrente, di accogliere senza timore, di stare solo e di stare con tutti; ma anche così libero da poter decidere di obbedire, da potersi volontariamente sottomettere, da accogliere l'umiliazione senza venirne distrutto. Un maestro che ci dice: «Imparate da me».
Non dobbiamo dunque temere di lavorare perché l'Io di ogni cristiano sia un Io forte: dobbiamo favorire lo sviluppo di personalità libere, pensanti, sicure, ricche di passione. Per questo non dobbiamo mai temere le emozioni, che rendono ricca la vita. Tutte le emozioni vanno accolte e ascoltate con rispetto, perché ci orientano su noi stessi e su ciò che accade nelle nostre relazioni; la maturità affettiva non passa mai attraverso una repressione delle emozioni, ma solo attraverso la capacità di governarle, perché diventino alleate preziose di scelte consapevoli. Dobbiamo sapere però che una personalità affettivamente libera non si improvvisa, richiede un tempo di maturazione che passa anche attraverso prove ed errori. L'entusiasmo generoso dell'età più giovane porta qualche volta a credere di essere già pronti a regalare la nostra libertà, ma nessuno può regalare davvero quello che ancora non possiede pienamente, e può capitare che, passato l'entusiasmo, il cuore inizi ad avvertire un senso di soffocamento e ribellione. Solo quando l'Io è diventato sufficientemente forte, parole come obbedienza (liberamente scelta) e umiltà (come riconoscimento della misura reale del Sé) non inducono più quel sottile disagio psichico che invece provocano quando la persona non è ancora pronta a farle sue. Solo con un Io ben strutturato la mente e il cuore, la ragione e le emozioni, possono allearsi in modo creativo.
Allora il cristiano potrà diventare, come dice Guardini «fiducioso nel mistero che sta dietro la prescrizione»; comprenderà che «Dio ha intenzione di attuare una creazione attraverso l'uomo che si mette a disposizione del suo comandamento». Da quel momento sarà meno difficile accettare la vita così com'è, e tutto prenderà un sapore diverso: perché ogni cosa è al suo posto, ogni cosa ha il suo senso.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI