giovedì 31 marzo 2011
Quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo.

«L'esperienza è un pettine che la natura dona ai calvi». L'antica ironia cinese si rivela folgorante in questa immagine destinata a illustrare l'ottusità umana che considera la saggezza acquisita con le prove della vita non come una guida per il presente, ma semplicemente come «un regalo utile che non serve a niente», per usare la definizione di un autore occidentale, Jules Renard. Siamo, così, condotti verso l'asserto che oggi propongo, desumendolo da quell'originale opera in cinque parti, pubblicata nel 1905-1906 dal filosofo statunitense (ma nato a Madrid nel 1863 e morto a Roma nel 1952), George Santayana, col titolo La vita della ragione, opera dedicata appunto alla conoscenza umana e ai suoi processi. Chi non conserva la lezione ricevuta attraverso le esperienze della vita è inesorabilmente destinato a inciampare di nuovo in errori e fallimenti.
Purtroppo la storia conferma la tesi opposta e l'umanità spesso dissolve nell'oblio il passato e si ripresenta implacabile sugli stessi abissi, pronta a precipitarvi. Ecco perché il ricordo diventa fondamentale proprio per il progresso e non tanto per la conservazione. Con l'eredità di sapienza e di insipienza che abbiamo ricevuto dal passato noi possediamo come una fiaccola che dirada l'oscurità incerta del futuro. E invece la smemoratezza contemporanea è convinta che, senza lo scrigno del ricordo, si possa procedere più spediti. In realtà, si avanza in modo frenetico e schizofrenico e si inciampa in equivoci, in abbagli, in spropositi che già erano stati vissuti, identificati e bollati nella storia che sta alle nostre spalle. Ma, in positivo, si perdono anche tutti i valori, le intuizioni, le creazioni che un passato nobile ci ha lasciato come patrimonio. È curioso notare che per la Bibbia "ricordare" è il verbo della fede e della vita e "dimenticare" è il vocabolo dell'apostasia e della morte.
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