venerdì 21 dicembre 2018
Quuella notte era morto Giovanni, il nonno paterno. Il nonno che con la nonna Alfonsina aveva badato ai bambini, mentre mio marito e io lavoravamo. C'erano, quei due, ogni giorno, a qualsiasi ora. Pronti a giocare con uno, due, poi tre nipoti. Sempre grati di vederli.
Il nonno Giovanni portava Pietro, il primo nipote, in triciclo in cortile. Poi lo andò a prendere a scuola, e gli insegnò a giocare a carte, e a pescare. E ora, era morto. Nel silenzio della casa, quella notte, mi sembrò di sentire un rumore. In sala, per non farsi sentire, il figlio quattordicenne piangeva. Mi sedetti accanto. Non l'avevo mai visto piangere così. I suoi fratelli piccoli dormivano. C'era l'insorgere dell'adolescenza in quel pianto, e l'affacciarsi di uno sguardo adulto. «Il nonno non c'è più. Non è possibile», mormorò: per la prima volta attonito, di fronte alla morte. Quei giorni, quei giochi, dov'erano? Come files cancellati da un pc, pareva pensare lui, cresciuto davanti a uno schermo. L'idea del nulla lo travolgeva, in quella notte adolescente.
Restai a lungo zitta. Il torrente gonfio aveva bisogno di esondare. Poi lo abbracciai forte. «Il nonno c'è, e lo ritroverai», seppi dire soltanto. Contraddicendo tanti anni miei, da ragazza, passati a dubitare. Ma da madre, ora, con un'ostinata certezza.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI