venerdì 13 dicembre 2019
Al telefono con un'amica sento la sua vecchia mamma che si agita e grida cose sconnesse, una demenza arrivata quasi all'improvviso.
L'anziana donna piange, urla, alterna tenerezza struggente a una furia incontrollabile. Travolta da emozioni contrastanti - strazio, rabbia, protettività - la figlia soffre. È davvero difficile, costretta al maternage h24. La figlia-bambina vorrebbe riavere la sua mamma e non si capacita; la figlia-adulta si sfinisce in una simbiosi che la porta sull'orlo del burn out.
Spesso in situazioni del genere non si può fare a meno di farmaci che sedano: nemmeno la vigilanza costante preserva questi malati dal rischio di fare e farsi male. Forse soffrono, e vanno aiutati.
C'è però altro che si può fare dentro al proprio cuore per darsi una mano ad affrontare la prova: non rivoltarsi, chinare il capo di fronte al mistero di una vita che si avvia alla sua conclusione. Accettare lo svanimento della mente come una forma di auto-tutela di fronte alla prospettiva della fine.
Mio nonno, ormai costretto in un lettino d'ospedale con le sbarre, cantava strane canzoncine. Accanto a lui mia mamma - sua figlia - gli faceva il controcanto tenendolo per mano e lui sembrava contento. Avevo vent'anni. Ricordo di essere fuggita dalla stanza, incapace di sopportare. E ricordo la forza di mia madre canterina vicina al suo vecchio padre.

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