sabato 26 novembre 2011
Buddha s'era imbattuto in un criminale che voleva ucciderlo. Gli chiese solo di esaudire un suo ultimo desiderio: «Taglia un ramo da quest'albero!». Quello lo accontentò e disse: «E ora?». «Riattaccalo!», ordinò Buddha. Il bandito sghignazzò: «Sei pazzo a volere questo!». «No, lo sei tu: uccidere e far del male è una cosa da bambini e non un segno di potenza. Lo è, invece, creare e risanare!».

La potenza degli eserciti si misura sulla loro capacità di fuoco e di annientamento. La forza di una persona si esprime nei bicipiti che sanno spaccare ciò che capita sotto tiro. È la logica di morte che sottilmente pervade la nostra società: assassini, stupri, violenze come soluzioni imboccate sotto il turgore della passione, atti istantanei ed "efficaci" che sono, però, irrimediabili e irreversibili. Un sapore di morte che si insinua anche quando si affrontano questioni delicate e complesse riguardanti la vita: pensiamo all'aborto o all'eutanasia adottate come soluzioni più facili.
La lezione del Buddha, nell'apologo indiano da noi evocato, mostra la penosa immaturità di chi opta per la logica dell'eliminazione e non della soluzione, della prevaricazione e non del rispetto, della distruzione e non della creazione. Tutti hanno la forza bruta di premere un grilletto e di cancellare una vita; nessuno sa ricrearla perché è un'opera unica e superiore. Dobbiamo, allora, ricostruire nelle menti e nei cuori l'amore per ogni creatura vivente come unica e insostituibile. Il contrasto tra l'estrema fragilità e la suprema grandezza della vita lo esprimeva in modo lapidario lo scrittore e politico francese André Malraux nel suo romanzo I conquistatori (1928): «Ho imparato che una vita non vale nulla e che nulla vale una vita».
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