domenica 14 dicembre 2003
Penso al teologo che non aspetta perché possiede Dio chiuso in un edificio dottrinale. Penso all'uomo di Chiesa che non aspetta Dio perché lo possiede racchiuso in un'istituzione. Penso al credente che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso nella propria esperienza. Non è facile sopportare questo non possedere Dio, questo aspettare Dio. Oggi è la terza domenica d'Avvento, termine che di natura sua suppone un'attesa: se è preannunziata una venuta, è ovvio che ci sia un minimo di tensione. Ho ritrovato queste righe del teologo americano Paul Tillich (1886-1965) e mi sembrano adatte a registrare un fenomeno spirituale antitetico rispetto al tenore di questo passo. C'è, infatti, un clima ben diverso non solo nella società civile che non aspetta più nulla fuori di se stessa, china com'è sui suoi beni, sui piaceri, sui possessi, sull'orizzonte dell'utile e dell'immediato. Ma non c'è talora attesa vera neppure nella stessa comunità cristiana, quando ripete i riti natalizi quasi fossero tradizioni obbligate e scontate. Come scrive Tillich, c'è il teologo che è convinto di aver catturato Dio nel suo sistema dottrinale. C'è il sacerdote che ripete le sue liturgie e i suoi programmi pastorali secondo una routine dagli esiti prevedibili. C'è il fedele che si rinchiude nelle sue faccende, riservando a Dio solo il tempo indispensabile così da non compromettere l'equilibrio tra interessi esteriori e rispetto religioso. E invece - ammonisce il teologo - dovremmo essere tutti più consapevoli di "non possedere Dio", di aver bisogno di lasciargli uno spazio libero ampio e sgombro perché egli possa giungere a noi e in noi. Anzi, attendere Dio dovrebbe essere una legge costante dello spirito: Dio è infinito, i suoi doni sono sempre nuovi, il suo mistero è sempre invalicabile, nonostante il nostro tentativo di sondarlo e l'illusione di esaurirlo. Per questo lo dovremo sempre aspettare e le sue sorprese non cesseranno mai.
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