venerdì 20 marzo 2020
È un’idea lanciata su Instagram, e mi pare bella, per chi ha dei figli bambini: approfittiamo di queste giornate in casa per farci raccontare, a voce o per telefono, le storie dei vecchi. Dei nonni o bisnonni che vissero la guerra, e ne sono ormai gli unici testimoni. Da piccola io ascoltavo affascinata mia madre, che era stata Crocerossina sulle navi della Marina, e negli ospedali militari. Mi diceva di un orizzonte per me sideralmente lontano, i bombardamenti, le camerate gremite di giovani feriti che imploravano acqua, o di alleviare il loro dolore. Era un film in bianco e nero, veloce, la mia immaginazione, eppure tuttora indimenticabile. In un armadio di casa che ogni tanto andavo segretamente ad aprire, poi, c’era un cappello da alpino. Lo restavo a guardare a lungo, quel cappello tornato dal Don, per me intriso di doloroso mistero. La mamma di mio marito ai nostri figli bambini raccontava della guerra a Milano. Di una mattina che era a scuola, in piazza Vetra, e suonò la sirena dell’allarme. Lei allora in bicicletta, da sola, traversò di corsa il centro, piazza Duomo, poi il Parco, fino a piazza Firenze, trafelata, mentre già crollavano le prime case in un boato. Aveva quattordici anni allora, la nonna: i bambini a tavola la ascoltavano increduli, senza perdere una parola. Come me, bevevano quel tempo inimmaginabile e ai loro e miei occhi assolutamente remoto. (Solo da adulta ha fatto due conti: la guerra era finita 13 anni prima che io venissi al mondo – un soffio d’anni appena). Bello, sì, era ascoltare quelle storie, come una terribile fiaba, ma con il lieto fine: la città ordinata, il cibo abbondante, le case in cui vivevamo. Come ci venisse detto: anche dopo la più dura prova, si può rinascere. Era questo l’oro della memoria dei nonni, che inconsapevolmente assorbivamo.
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