Altruismo splendente (ben più del coraggio)
mercoledì 15 gennaio 2020
Il guerriero sorridente se ne è andato. Giovanni Custodero, portiere del Fasano calcio a 5, non soffre più. Lo aveva voluto raccontare quel dolore, anche quando era diventato umanamente impossibile da sopportare. Aveva raccontato la sua malattia, il sarcoma osseo, l'amputazione di un arto, i cicli di radioterapia. Domenica scorsa aveva parlato di lui, sulla prima pagina di questo giornale in un editoriale colmo di emozione, il poeta Daniele Mencarelli, intrecciando la sua storia con quella altrettanto tragica di Janine Benecke, prima scampata al linfoma di Hodgkin e poi uccisa dall'auto di un ragazzo ubriaco. Ieri, ne ha di nuovo parlato Alessia Guerrieri, la prima a scriverne e infine costretta purtroppo a dare conto della sua morte, sottolineando il messaggio esemplare della sua vicenda umana: «Amate ogni istante della vostra vita», se si potesse sintetizzare qualcosa di così enorme in sei parole.
Di solito, in questa mia rubrica, si guarda altrove partendo da un fatto sportivo e lo sport nella storia di Giovanni Custodero c'entra, eccome. Il suo essere stato un atleta ha probabilmente dato forma al modo in cui questo ragazzo ha affrontato la malattia e alla sua volontà di raccontarla, da "guerriero sorridente", appunto. Negli ultimi mesi ci sono state almeno altre due vicende simili, che hanno coinvolto due sportivi certamente più famosi di Giovanni: penso al racconto della battaglia di Sinisa Mihajlovic, l'allenatore del Bologna e di Francesca Schiavone, regina a Roland Garros nel 2010. Le lacrime di un duro della panchina, grande protagonista di uno sport di squadra, il sorriso solare di una virtuosa della racchetta, sport individuale e quello di un ragazzo come mille, protagonista di uno sport che riempie meno pagine di giornali. Che cosa tiene insieme questi racconti della malattia? Perché, in un momento in cui sarebbe stato legittimo e comprensibile chiudersi in se stessi, allontanarsi, cercare il silenzio, questi tre sportivi hanno scelto, invece, di raccontare e raccontarsi?
Ho profondo rispetto, anzi ammirazione, per chi ha scelto di mettersi a nudo, di pubblicare o mostrare un'immagine di un sé indebolito, malato, di un corpo da atleta scavato dalla malattia o, come nel caso di Giovanni, amputato. Dubbi, paure, fatica, forza d'animo: questi tre sportivi hanno deciso di affrontare la propria prova come si farebbe in uno spogliatoio. Non è questione di coraggio che, purtroppo, non rappresenta garanzia di vittoria: Mihajlovic è un "guerriero" che ce l'ha fatta, Giovanni, purtroppo, no. Il punto è un altro, molto più virtuoso: l'idea, in un momento drammaticamente difficile della propria vita, di volersi rendere utili, di mettersi a disposizione. Un atto definitivo di altruismo. Non è questione di coraggio, dicevamo. È più questione di allenamento, o meglio di quelle cosa che l'arte dell'allenarsi insegna. La necessità della fatica, la volontà di definire obiettivi, magari piccoli, ma per i quali vale la pena lavorare ogni singolo giorno, soprattutto quando è difficile farlo. Nutrirsi e nutrire quella forza che ti regala l'essere parte di una squadra.
Vengono in mente alcuni versi di una splendida poesia di Rudyard Kipling, If ("Se"): «Se saprai serrare il tuo cuore, tendini e nervi / nel servire il tuo scopo quando da tempo sono sfiniti / E a tenere duro quando in te non c'è più nulla / Se non la Volontà che dice loro: "Tenete duro!». È un "se" che si impara negli spogliatoi, una caratteristica che nulla ha a che fare con la vittoria o con la sconfitta, ma con un modo di stare al mondo che diventa capace di trasformare una mano che avrebbe tutto il diritto di chiedere aiuto, in una mano tesa, che offre aiuto. Grazie Sinisa, grazie Francesca e, più che mai, grazie Giovanni, atleti diventati campioni assoluti proprio quando il vostro corpo ha incominciato a vacillare.
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