venerdì 26 aprile 2019
Con i morti non ci sono vie di comunicazione internet o telefoniche. Qualche racconto di fantascienza o horror ha provato a inventarsi qualcosa del genere, con scarsa convinzione, e l'unica strada che conosciamo resta quella dei sogni. Pensavo a questo guardando un calendario dove ho segnato in rosso la data del 25 aprile e del primo maggio, feste grandi almeno un tempo, durato decenni, quando il fascismo era stato sconfitto almeno nelle sue forme più violentemente “storiche”, e non era tornato di moda, grazie ai loro seguaci di oggi, diretti o indiretti ma pur sempre ammiratori degli uomini forti che cambiano la storia
dicendo di voler vendicare i deboli (e i vigliacchi) delle loro frustrazioni, proteggendo le loro aspirazioni più basse e dando sfogo alle proprie, senza più alcuna idealità a stimolarli. Per molti anni ho avuto l'abitudine di scrivere sulle mie agendine annuali, in questa settimana d'aprile, i nomi di tutti coloro che conoscevo che avevano, in un modo o nell'altro, preso parte alla Resistenza, e passavo la mattina del 25 aprile chiamandoli al telefono per due chiacchiere festose. Mi sembrava un dovere e non solo un piacere, e loro ne erano contenti. Se vivevo una vita piena e sicura lo dovevo anche a loro, e ne ero cosciente. Nella mia lista c'erano nomi importanti, famosi, perfino quelli di Ferruccio Parri, di Ada Gobetti, di Giorgio Agosti, dei coniugi Foa, Venturi, Calogero, di Ignazio Silone, di Romano Bilenchi e Vasco Pratolini, di Tommaso Fiore, di Sergio Bruni (il grande cantante napoletano che aveva preso parte alle Quattro Giornate e di cui mi onoro di essere stato amico), di Nuto Revelli, di Bianca Guidetti Serra, dei fratelli Galante Garrone, dei presti serviti Turoldo e De Piaz... E di amici che la Resistenza l'avevano fatta giovanissimi, alcuni appena diciottenni come Paolo Gobetti e Paolo Spriano e Sandro Sarti, che era valdese come Gustavo Malan e sua sorella Frida, coraggiosa fino all'incoscienza, mi raccontavano i suoi amici, e poi operai, montanari, gente comune, maschi e femmine che avevano in vario modo
sofferto la guerra e si erano ribellati al suo ordine facendo, sui monti o nelle città, e la Resistenza l'avevano fatta, rischiando spesso la pelle per fare dell'Italia un paese libero e migliore e tornando a guerra finita alle occupazioni di prima. Una minoranza di gente perbene che si trovò a guerra finita a inventare, con la Costituzione e le sue riforme, un mondo migliore, aprendo agli anni più giusti della nostra storia nazionale, così ingiusta prima e tornata a esserlo oggi. I più li avevo conosciuti a Torino, lavorando al Centro Gobetti intorno al 1961-'63, altri altrove e in ambienti diversi. Capitava perfino che se tardavo a telefonare a qualcuno ricevevo una telefonata di protesta: «È quasi mezzogiorno e non mi hai ancora chiamata!» mi rimproverò una volta aspramente, per esempio, Lalla Romano. Noti e ignoti, ripeto, ma tutti che avevano rischiato la vita per le loro convinzioni. Come non portargli riconoscenza, non ammirarli e ad amarli? Pian piano quell'elenco è andato assottigliandosi e da molti anni non ho più nessuno a cui telefonare nella fatidica mattina del 25 aprile. Ai morti non si può telefonare. Ma si può ancora, in altri modi, ascoltarli.
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