Vedere l’invisibile: uno sguardo dal cuore
di Luigi Verdi
XXVI Domenica del Tempo ordinario - Anno C In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”». Ci sono corpi vivi e dolenti accanto a noi, occhi che implorano attenzione e com-passione, ci sono mani che si tendono senza voce. Aspettano. Non hanno altro se non la pazienza di aspettare che qualcuno si accorga di loro, che qualcuno si svesta della propria indifferenza e li guardi e veda finalmente il loro bisogno di aiuto. Il popolo degli indifferenti prolifica da tempo immemorabile: già ai tempi di Gesù camminava nelle piazze e nel tempio, ciascuno di loro profumato e vestito per bene, ciascuno con la pancia piena e gli occhi appannati dal buon vino. Occhi che però non vedono e che non sanno commuoversi. Costoro non godono della simpatia di Gesù, li attacca infatti più volte, non per il fatto che possiedano ricchezze, ma piuttosto per quell’implacabile rinchiudersi nel loro agio, per quella miopia che li costringe a guardare nel loro minuscolo e ristretto campo visivo, nell’asfittico cerchio di sé stessi. Lo ripete Gesù più volte fino a sospirare che «è più facile che un cammello entri dentro la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli». Un regno piccolo e povero come un chicco di senape, come la pioggia nella primavera, come il desiderio di un prigioniero, come il giorno di un malato, come la mano in cui si piange. Come la bocca di un affamato. Un regno così piccolo da sembrare invisibile per chi invece ha fatto della potenza, dello splendore, della forza la misura del suo vivere, del suo essere nel mondo. Cè un abisso tra Lazzaro e il ricco epulone, c’è un abisso in vita e un abisso in morte: li separa la voragine dell’avidità e dell’ingordigia, le vesti di lino e le piaghe, i banchetti sontuosi e le briciole. Abisso invalicabile anche in morte, Lazzaro lassù, nel cuore di Abramo, ed il ricco laggiù, negli inferi lontani. Non credo però che Gesù abbia raccontato questa parabola per una sorta di consolazione verso i poveri: non sarebbe giusto rimandare al dopo la morte la ricompensa per chi ha sofferto nella vita: voglio credere piuttosto che le parole di Gesù siano rivolte proprio a quei ricchi, a quei lontani indifferenti, perché possano ancora ritrovare uno sguardo che venga dal cuore. Perché possano vedere l’invisibile. Ci sono corpi vivi e dolenti vicino a noi, reclamano una giustizia che comincia dalla nostra attenzione, dal nostro accorgersi di loro, dalla nostra tenerezza consapevole che «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». (Letture: Am 6,1a.4-7; Sal 145; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31) © riproduzione riservata
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