Lo Strega? È diventato un premio alla carriera

Ogni anno, quando viene assegnato il premio Strega, cerimonia romana per molti imprescindibile
March 14, 2007
Ogni anno, quando viene assegnato il premio Strega, cerimonia romana per molti imprescindibile, penso agli attuali romanzi italiani, a chi li scrive e a perché, almeno da dieci anni, non riesco a leggerne uno per più di una ventina di pagine. Anche se ho un'altissima considerazione del valore culturale e della funzione educativa del romanzo, non sono mai stato un gran lettore di narrativa. Tendo a leggere con la matita in mano aspettandomi di incontrare righe o passi memorabili da sottolineare, e questo forse non è il modo migliore per immergersi nel flusso di una narrazione. Il flusso però deve esserci perché sia possibile esserne trascinati. E c'è il flusso se ci sono due cose: il ritmo, la qualità della prosa e l'interesse della situazione e del personaggio, due cose oggi molto più rare che qualche decennio fa. Ormai ottenere il premio Strega sembra essere soprattutto una tappa obbligata per i molti, troppi narratori italiani, quasi un riconoscimento dovuto per ragioni di anzianità. Fa parte della "carriera" e dato che la critica letteraria è sempre meno ascoltata e autorevole (praticarla seriamente è considerato un difetto) il premio sembra che permetta agli autori di entrare nella storia. Ma esistono ancora una storia della letteratura e del romanzo italiano? Anche gli storiografi e i critici più accoglienti hanno cominciato a dubitarne. Chi ottiene il premio Strega entra a far parte della storia del premio Strega, non della storia della letteratura. Quest'anno, poi, mi è capitato di sfogliare per tutt'altri motivi il Meridiano Orwell e mi si è fermata l'attenzione su un suo articolo del 1936 intitolato In difesa del romanzo. «Il guaio – scriveva Orwell – è che si sta uccidendo il romanzo a forza di urla. Se chiedete a chiunque sia dotato di cervello perché non legga mai un romanzo, scoprirete che, alla fin fine, ciò è di solito dovuto alle disgustose stupidaggini che si trovano scritte negli articoletti pubblicitari (...) Vi sparano addosso romanzi al ritmo di una quindicina al giorno e ognuno di essi è trattato come un capolavoro indimenticabile». Adesso succede in Italia quello che in Inghilterra e in America succedeva un secolo fa. Non sono più i critici, è la pubblicità a decidere che è "grande" un autore di cosiddetti romanzi. Il rimedio, secondo Orwell, sarebbero dei recensori capaci di distinguere fra romanzi di serie A, B, C e che «tengano davvero all'arte del romanzo», perché sanno ancora che cos'è e che cosa è stata quest'arte.

© RIPRODUZIONE RISERVATA