Lo sport più popolare, il razzismo e i diritti negati
mercoledì 16 gennaio 2019

È l’Italia che non va, anche quella del pallone, che – attenzione – è quasi sempre lo specchio fedele del Paese reale. Caos in pieno corso. Dal 26 dicembre, giorno del primo boxing day all’italiana (in campo per Santo Stefano) a oggi, giorno della finale di Supercoppa, Juventus-Milan (che 'giustamente' si assegna in Arabia Saudita), si è giocato solo fuori dal campo, ma a 'palla avvelenata'. Il 26 dicembre a San Siro scontri ferali tra ultrà o sedicenti tali, interisti contro napoletani, che hanno portato all’assassinio del 39enne Daniele Belardinelli.

Dalla Curva Nord interista quella notte, in segno di 'solidarietà', piovvero ululati razzisti all’indirizzo del signor Malaussène del nostro calcio: il capro espiatorio franco-senegalese Koulibaly, difensore del Napoli. Milano chiama Roma sul fronte del razzismo e Roma risponde con gli strepiti delle sue orde balorde, e da entrambe le sponde del Tevere. I laziali nel giorno del 119° compleanno della squadra del cuore inscenano una marcia su Roma con tanto di guerriglia e assalto alle forze dell’ordine. Il tutto condito da slogan antisemiti (rincarati per l’avvicinarsi della Giornata della Memoria) ai quali risponde la Curva Sud romanista, che srotola striscioni anche contro i Carabinieri. A Potenza gli ultrà scrivono da anni «rispettiamo solo i pompieri».

È questo, ahinoi, il clima culturale in cui viviamo lo sport più nazionalpopolare, capace di fermare le (poche) fabbriche rimaste e di far scattare interpellanze parlamentari sull’abuso del Var. Intanto, la maggioranza assiste silenziosa, i dirigenti del Palazzo del calcio non commentano e se si fa notare loro l’inopportunità di andare a giocare la Supercoppa italiana a Gedda, in un Paese dove i diritti umani vengono calpestati (come a Doha, a Tripoli e in Cina, sedi precedenti del trofeo italico) e dove fino al 1997 nessuna donna era entrata in uno stadio – la prima è stata la giornalista spagnola Cristina Cubero –, ti rispondono che con un assegno triennale da più di 20 milioni, perché a tanto ammonta l’ingaggio garantito dai sauditi per vedere all’opera le finaliste italiane, non c’è nemmeno da stare a discutere.

Zitti e a Gedda! Del resto giocare lì, con le volpi del deserto, o a tra i rifiuti (anche disumani) di Roma, quanto a sicurezza non cambierebbe poi molto. Da noi si continua intanto a sbandierare la «tolleranza zero» verso i violenti del pallone, e il presidente della Lazio Lotito chiede l’apertura di celle negli stadi, come in Inghilterra. Ma forse i dirigenti dei nostri club (anche di periferia, vedi ieri ultimo caso di calcio giovanile a Parma) e il pubblico dei nostri stadi (mai educato al nobile fair play) dovrebbero fare un anno di Erasmus nella Premier inglese.

Carlo Ancelotti l’ha fatto a pieno quel tirocinio: prima di sbarcare a Napoli è passato da Francia, Spagna e Inghilterra, e per questo da cittadino di quell’Europa che qualcuno vuole cancellare chiede civilmente di sospendere la partita in caso di nuovi cori razzisti negli stadi. Ma chi l’ascolta il saggio Ancelotti? Federcalcio no e neppure la politica, che si smarca con delle finte che neppure Cristiano Ronaldo. Prendete il ministro dell’Interno Salvini, durante le sue visite diplomatiche indossa con nonchalance e proverbiale 'eleganza' la giacca della Polizia, ma poi va a colloquio con gli ultrà, specie quelli del suo Milan (forse unico punto di contatto rimasto con il governo Berlusconi, ex patron rossonero), dialoga e si confronta con gli stessi soggetti che stanno mettendo a soqquadro le città con quasi la stessa veemenza dei gilet gialli parigini.

Ma i francesi, stigmatizzabili violenze a parte, rivendicano diritti socialmente utili per tutta la comunità e lo fanno scendendo a centinaia di migliaia in piazza. Da noi, la piazza... dimmelo tu cos’è? È spesso il ritrovo di delinquenti mascherati da tifosi, che continuano a tenere in ostaggio le società, quelle sportive e quella civile, ridotta a triste, solitaria e più 'finale' dell’appuntamento di Gedda.

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