mercoledì 10 maggio 2023
Il lettore solleva il tema della fraternità nel lavoro. Che non è utopia ma speranza cristiana e impegno umano. Come in quella omelia di don Mazzolari
«Vorrei un Primo Maggio festeggiato da lavoratori e imprenditori»
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Caro direttore,
ho letto e riflettuto sull’editoriale che Francesco Riccardi ha dedicato alla Festa del Lavoro su “Avvenire” del 30 aprile scorso. Vorrei che, contrariamente a quel che affermava qualcuno qualche decennio fa, si potesse dire che è il lavoratore a nobilitare il lavoro, qualsiasi lavoro, e non viceversa capovolgendo i valori in campo. Vorrei che la festa fosse vera e reale e non l’occasione per accuse e insulti strumentali e per bassi e volgari motivi propagandistici. Vorrei che fosse una festa di fraternità vera e non di improperi e contestazioni, di bandiere divisive e insegne di odio. Vorrei che tutti, lavoratori e datori di lavoro, potessero festeggiare insieme il Primo Maggio e non, come ora, questo giorno si rivelasse occasione di accuse reciproche di sfruttamento e di disinteresse per l’impegno personale. Purtroppo non è mai stata così, gestita com’è da interessi di parte. E così non si avranno proposte serie di miglioramenti per i lavoratori e per le condizioni di lavoro. Rimarrà purtroppo invece l’odio di classe artatamente fomentato da una parte e dall’altra e nessuno degli attori in campo farà il primo passo di riconoscersi fratelli e sorelle perché figli di un solo Padre. E saranno quindi le parole di Riccardi come le mie, parole buttate al vento...

Santo Bressani Doldi


Condivido pienamente le sue parole, gentile dottor Bressani Doldi, alle quali il direttore mi chiede di rispondere. Lei giustamente ricorda innanzitutto il primato della persona sul lavoro. Perché se è vero che in generale “il lavoro nobilita l’uomo”, come si suole dire, la dignità della persona è un valore incomprimibile e mai svalutabile. Anche quando una persona non lavora, non riuscendovi o non potendo per infinite cause e motivazioni. Riaffermarlo non è banale, nel momento in cui campagne culturali e alcuni interventi politici accreditano invece l’idea che la disoccupazione e la povertà siano, non una condizione da cui risollevare le persone accompagnandole, ma una colpa personale da espiare. Condivido anche tutti i suoi auspici sul Primo Maggio che lavoratori e imprenditori dovrebbero onorare insieme. La Dottrina sociale della Chiesa lo indica da tempo come obiettivo. E papa Francesco ha riassunto in poche parole le caratteristiche che il lavoro dovrebbe avere: essere libero, creativo, partecipativo e solidale. Perché il lavoro non dovrebbe mai essere solo per sé stessi o esclusivamente indirizzato a produrre un plusvalore. Rappresenta infatti l’ambito fondamentale delle relazioni umane ed è il principale strumento con cui ognuno di noi trasforma il mondo, diventandone addirittura cocreatore (o co-distruttore). A questo proposito mi sono rimaste scolpite nella memoria – e spero nella coscienza – alcune parole della omelia che don Primo Mazzolari pronunciò il Primo Maggio del 1947 in un’epoca assai difficile, di odi e grandi divisioni di classe. « L’uomo vale perché lavora», diceva il parroco di Bozzolo, ma non per il pane che si guadagna o per il denaro con cui si viene retribuiti e nemmeno per ciò che si produce, che «una macchina produce molto di più...» L’attenzione per quel sacerdote-profeta andava posta sul «compagno», sul lavoratore-prossimo, sul proprio dipendente. «È un mio eguale, ma se io non vedo qualche cosa di divino in lui, se non riconosco un suo valore eterno, chi può impedire al mio egoismo di attaccarlo sotto in mia vece e di farlo tirare come faccio tirare un cavallo per bere o una macchina? Lo sfruttatore, il negriero è dentro ognuno di noi, se non troviamo la forza di comprimerlo. La legge non basta, l’organizzazione sociale non basta...». Quanti “negrieri” che sfruttano il lavoro altrui vediamo ancor oggi all’opera anche in Italia? In quanti posti anche nelle nostre imprese si “mettono sotto” tanti giovani facendoli “tirare come cavalli” ripagandoli ben poco? Quanto anche noi, nei rapporti internazionali, “sfruttiamo” altrui debolezze come nostre convenienze? «Dio nel compagno lo fa mio fratello e allora il mio lavoro diventa un atto di religione: lavoro con Dio in un atto d’anima che abbraccia ogni creatura», predicava don Primo. Concludendo che «la rivoluzione la possono fare soltanto lavoratori cristiani». Con il coraggio di denunciare le ingiustizie, lottando (pacificamente) per superarle, impegnandosi per costruire il bene comune. Riconoscendosi davvero, come lei dice, “fratelli e sorelle d’uno stesso Padre”. La ringrazio per l’attenzione e la sua riflessione.

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