Comunità e memoria: la geografia alla rovescia con cui riscrivere il Paese

«Ho chiuso gli occhi e ho viaggiato: valli, colline, abbazie e città. Una geografia di nomi e memorie da cui traggo una certezza: senza quelle comunità radicate nei secoli, l'Italia non esiste
August 26, 2025
Comunità e memoria: la geografia alla rovescia con cui riscrivere il Paese
Sec | Elena Granata
Ho chiuso gli occhi e ho viaggiato l’Italia, lasciandomi guidare dai nomi delle terre citate dai vescovi nella Lettera aperta al Governo e al Parlamento: da Benevento ad Ascoli Piceno, da Asti ad Agrigento, da Cremona a Viterbo, da Norcia a Noto, e così via per altri 139 luoghi tra valli, paesi, colline, abbazie e città. Da questa geografia di nomi e memorie ne traggo sempre una certezza: senza quei luoghi, senza le comunità radicate nei secoli e senza le loro molte storie, l’Italia semplicemente non esisterebbe. Non è solo questione di geografia, è identità condivisa, è presenza viva che ancora oggi tiene insieme il Paese.
Non sorprende, allora, che l’appello provenga da una delle ultime realtà istituzionali diffuse capillarmente sul territorio - la Chiesa - dando voce a una geografia alla rovescia, lontana dai centri metropolitani e dalle aree più attrattive. Con un eccesso di atavica pigrizia collettiva le chiamiamo aree interne, ma si tratta di una realtà consistente: quasi il 60% del territorio nazionale, più della metà dei Comuni, circa 13 milioni di abitanti (22-23% della popolazione). Un’Italia di mezzo ‒ come la chiama Arturo Lanzani ‒ vuota (come recita il titolo del libro di Filippo Tantillo), poco considerata dalle strategie politiche nazionali, privata di istituzioni intermedie, marginalizzata dal peso delle città e trattata con sufficienza dalle burocrazie centrali, come spesso ci ricorda Filippo Barbera.
Guardare l’Italia da qui richiede un radicale rovesciamento semantico e culturale. Solo piantando i piedi in queste terre possiamo respingere la retorica dell’abbandono e del sacrificio necessario, quell’idea semplificante che esista un solo modello di sviluppo, una sola idea di abitare, una sola idea di nazione a cui tutti debbono sottomettersi. L’Italia non vive solo nelle metropoli, nei grandi assi infrastrutturali o nei distretti produttivi: la sua anima pulsa nel suo sistema alpino, nelle valli, nelle colline, nelle città medie che custodiscono patrimonio artistico e identità, memorie e innovazione sociale.
«Non possiamo e non dobbiamo rassegnarci a sancire la morte di una parte significativa della Nazione. Ne sortirebbe un danno per tutti», scrive monsignor Felice Accrocca, arcivescovo di Benevento, ricordando a tutti che, accanto alle criticità, esistono enormi potenzialità, che hanno a che fare con il paesaggio e la natura, le economie diffuse, il sistema dell’accoglienza e dei nuovi stili d’abitare. Passare dall’accorato appello all’elaborazione di strategie e politiche locali ci richiederà (anche come Rete di Trieste) di lavorare su almeno tre aspetti.
Primo punto. Occorre ripensare le “città-fuori-dalle-città” e immaginare una geografia multipolare che connetta città e bacini agricoli, città medie e aree interne, nord e sud, restituendo alla varietà dei luoghi la loro presenza nel dibattito pubblico. Ha ragione Franco Arminio quando dice che la politica spesso sembra non avere un luogo, parla in astratto, senza alcuna capacità di connettersi con i luoghi reali del Paese. La varietà e la biodiversità territoriale sono il tratto distintivo del Paese. E questo è certamente un elemento di complessità organizzativa ma anche una ricchezza che viene spesso liquidata con sufficienza, buona per le sagre estive e le narrazioni turistiche. Al termine di un’estate che ha visto contrapposti luoghi del turismo di massa e spiagge disertate dalle famiglie, zone montane affollate e città afflitte dal caldo, porre nuova attenzione agli squilibri territoriali, alla crisi dei luoghi e al malessere delle comunità non è procrastinabile.
Secondo punto. La logica dell’attrattività – attirare capitali a tutti i costi in alcune città o su alcuni progetti – e la logica dell’abbandono – smantellare scuole e presidi sanitari, chiudere sportelli bancari, non investire su fragilità del territorio e rischi ambientali – sono due facce della stessa identica crisi civile. Vanno lette in relazione tra loro, superando la logica centro-periferia. Non si tratta di selezionare quali realtà debbano essere accompagnate in un percorso di spopolamento irreversibile e quali debbano essere salvate; al centro del discorso dovrebbero tornare la costruzione di reti di interconnettività, capaci di agire sugli squilibri territoriali e che lavorano su mobilità, accesso alla casa, lavoro da remoto, servizi territoriali.
Terzo punto. Non basta aggrapparsi alla storia o alla retorica della “Bella Italia” che siamo stati, fatta di borghi turistici ma che spesso dimentica i paesi dove vivono le persone e i loro bisogni quotidiani. Non basta neppure più dire che siamo un museo a cielo aperto! Perché l’Italia-di-mezzo diventi davvero un laboratorio, occorre sperimentare nuovi modelli di relazione con la terra, con le risorse limitate e con la crisi climatica. Il futuro del Paese dipenderà dalla capacità di prendersi cura dei beni comuni e del patrimonio ereditato dal passato in modo innovativo e sostenibile.

© RIPRODUZIONE RISERVATA