sabato 11 luglio 2015
Una poesia per le madri della città martire, la storia della cittadina "protetta" che ospitava 42mila rifugiati musulmani al momento dell'assalto delle bande armate dii Ratko Mladic
La commemorazione dell'eccidio di Srebrenica l'11 luglio 2017 (Foto Ansa/Ap)

La commemorazione dell'eccidio di Srebrenica l'11 luglio 2017 (Foto Ansa/Ap)

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​«Da lei [Srebrenica] fugge tutto

anche ciò che da nessuna parte

se non sotto la terra nera

può fuggire.

Ci dicono

da venti anni ce lo dicono

che nel nostro Paese

Bosnia Erzegovina

la guerra è finita

e che nessuno

deve più

guardare al passato.

Non vedono, non sentono

non sanno forse che noi,

quelli rimasti,

siamo più morti di tutti…».

Abdulah Sidran mette in scena con il poemetto Suze majki Srebrenice (Le lacrime delle madri di Srebrenica, ADV edizioni, Lugano, traduzione Nadira Šehovic) il genocidio, nel luglio 1995, della popolazione musulmana rifugiata nella enclave "protetta" di Srebrenica.

La cittadina di poche migliaia di abitanti prima della guerra, ospita - quando l'assalto finale della Vojska Republike Srpske, l'accozzaglia di bande al comando di Ratko Mladic - 42.000 rifugiati.

Le espulsioni e stragi della popolazione musulmana iniziano nel febbraio-marzo 1992 nelle città e villaggi lungo la Drina, la fatale Podrinija, la regione fluviale che fa confine con la Serbia. Massacri a Zvornik, a Bijelijna, a Foca, massacri sul ponte di Ivo Andric a Višegrad. «Una globale impresa genocida della quale Srebrenica è solo il segmento più orribile e più visibile» (Sidran).

Nei venti anni che la Storia ha messo tra noi e il lutto di Srebrenica, tutto è stato documentato e ricostruito: i luoghi, i nomi, i corpi, i resti, le tracce degli scomparsi nell’olocausto musulmano; le identità e i profili dei carnefici e dei colpevoli.

Poca luce è tuttavia puntata sullo scontro interno alla comunità bosniaca e al governo bosniaco presieduto da Alija Izetbegovic in quell'ultima stagione di guerra, la più sanguinosa, l'estate 1995. Tutte le sei enclave "protette" istituite dall'Onu più di due anni prima - Sarajevo, Tuzla, Žepa, Goražde, Bihac e Srebrenica - sono sotto attacco e combattono con ferocia. È ormai deciso che il territorio della Repubblica di Bosnia Erzegovina sarà diviso in tre quote "etniche", dimensionate a due - entità serba e federazione croato/musulmana. Pulizia etnica e sgomberi vicendevoli: Srebrenica e Goražde contro i quartieri serbi di Sarajevo (nel febbraio-marzo dell'anno dopo, nella neve, le penose colonne in fuga dei serbi della città).

L'accordo viene sancito negli incontri di novembre a Dayton, patrocinati dagli Usa. Dayton formalizza una partizione del Paese già nei fatti - enclave a parte -, già chiaro il progetto nelle stragi d'inizio, per un Paese a territori sovrani "etnicamente" puliti. L'accordo viene imposto, manu militari, nei combattimenti e nelle stragi dell'estate 1995. Sub specie etnico-religiosa ritornano le macroregioni e le articolazioni individuali di proprietà dentro le macroregioni. I fatti si sanno.

Cade il 10 luglio la piccola Žepa (il responsabile dell'enclave, il professore Avdo Palic, viene sequestrato da due soldati di Mladic nel parlamentare di resa che si svolge sotto la protezione dell'Onu. E Mladic: «L'ho ammazzato con le mie mani»). L'11 luglio cade Srebrenica, senza combattere. Il gruppo di comando bosniaco fugge con gli elicotteri (in salvo Naser Oric, il capo: «Per sette volte ho rifiutato di salire, per sette volte il presidente me l'ha ordinato»).

I soldati olandesi dell'Onu a difesa dell'enclave si arrendono senza colpo ferire, il colonnello Karremans alza sul manico di una scopa uno straccio bianco di resa. I soldati dell'Onu collaborano con le bande serbe a separare donne e bambini dagli uomini validi. Poi il genocidio.

Se uno oggi va a Goražde, nella Bosnia orientale, sulla Drina, attraversa un lungo corridoio nella "entità serba", legge sempre cartelli stradali in cirillico, sino al territorio comunale di Goražde. Goražde, un’aporia. Si narra come, in Sarajevo assediata, nell’estate del 1995, mentre a Goražde si combatte, una delegazione dei suoi cittadini-montanari, scende nella capitale, prende in ostaggio Izetbegovic e, con un coltello puntato alla gola, gli fa modificare le mappe e le carte dei pre-accordi di Dayton. Si salva così Goražde, non Srebrenica, non Žepa.

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