Quando la precauzione si trasforma in un rischio maggiore
giovedì 18 marzo 2021

Lunedì scorso alcuni Paesi europei, compreso il nostro, hanno disposto il divieto di utilizzo del vaccino AstraZeneca a seguito della notifica di alcuni casi di eventi tromboembolici in persone che avevano ricevuto il vaccino, trenta in quasi cinque milioni di vaccinati, come indicato dall’European Medicines Agency (Ema, dati aggiornati al 10 marzo 2021). L’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) comunica che suddetta decisione è stata presa «in via del tutto precauzionale e temporanea».

Questi due aspetti, precauzione e temporaneità, meritano alcune considerazioni, sia generali sia in riferimento al caso di specie. Coniato in Germania negli anni 70, il 'principio di precauzione' risponde all’esigenza di mediare tra lo sviluppo tecnico e scientifico fondamentale per il progresso dell’umanità e il controllo dei rischi a esso associati. Il criterio che ne è alla base intende tutelare l’ambiente e la salute umana, animale e vegetale, promuovendo le condotte che favoriscono il benessere dell’umanità e la salvaguardia dell’ambiente, contrastando al contempo quelle azioni che rappresentano rischi o minacce sui quali gravano incertezze sotto il profilo scientifico. Principio cardine nelle questioni che riguardano, tra le altre, clima, energia, utilizzo delle risorse, sviluppo economico, salute pubblica. Precauzione in medicina vuol dire fare tutto il possibile perché l’azione che si vuole intraprendere comporti benefici significativamente maggiori dei costi a essa associati, riducendone potenziali rischi e conseguenze. Non esiste alcunché in medicina che abbia solo benefici e nessun rischio.

Ogni farmaco ha effetti collaterali, dai comuni anti-acidi che spesso assumiamo come caramelle, ai potenti antiblastici riservati alle neoplasie invasive. Se un farmaco non ha effetti collaterali, semplicemente non è un farmaco, come peraltro il significato greco – veleno e medicina – ci ricorda. Ligio all’antico primum non nocere, il medico, prima di prescrivere un esame, un farmaco o un intervento chirurgico, mette su un piatto della bilancia i benefici attesi e sull’altro le potenziali conseguenze e i rischi associati, ben sapendo che il rischio zero non esiste. Veniamo dunque alla questione del vaccino anti-Covid.

Le stesse autorità che ne hanno disposto in fretta e furia il divieto di utilizzo hanno dichiarato, altrettanto sbrigativamente, che non si sa se esista un nesso di causa ed effetto tra la somministrazione del vaccino e gli eventi trombo-embolici segnalati. In queste ore, studiosi di diversa provenienza hanno criticato aspramente l’iniziativa sostenendo, dati alla mano, che gli eventi occorsi non si discostano dai numeri attesi nella popolazione generale nello stesso arco di tempo, anche per quanto riguarda le trombosi dei seni cerebrali, eventi meno frequenti rispetto alle trombosi venose.

Da più di un anno la pandemia da Sars-CoV-2 permea la nostra intera esistenza. Questo di per sé ha inevitabilmente concentrato sulla vaccinazione anti Covid un’attenzione enorme a livello sia del singolo individuo sia dell’intera comunità. Ne consegue che la contiguità temporale tra la vaccinazione e l’occorrenza di un evento avverso automaticamente venga interpretata come dimostrazione inconfutabile di nesso di causa, in virtù di quei meccanismi mentali – fallacie logiche – che gli psicologi studiano da anni. I due eventi, tuttavia, possono essere semplice gioco del destino, mera coincidenza. La scienza adotta procedure statistiche che servono proprio a verificare questa possibilità. In linea con questo, l’Unione Europea stabilisce come linea direttiva nella sua Comunicazione del 2 febbraio 2000 che

«L’attuazione di una strategia basata sul principio di precauzione dovrebbe iniziare con una valutazione scientifica quanto più completa possibile, identificando in ciascuna fase il grado di incertezza scientifica». Nello stesso documento si ribadisce come il principio di precauzione richieda anche una valutazione complessiva dei vantaggi e degli oneri, nel breve e nel lungo periodo.

La questione dunque è quali costi potrà avere questa sospensione della vaccinazione, in termini di salvaguardia della salute delle persone. Quanti nuovi casi e quanti morti saranno ascrivibili a questa ulteriore procrastinazione di una campagna vaccinale per molti aspetti già critica? Qui entra in gioco anche l’altro aspetto, quello della temporaneità. Non basta scrivere in un frettoloso comunicato che la misura è temporanea, perché lo siano anche le sue conseguenze. I dati di uno studio pubblicato a febbraio in Nature Medicine mostrano che la percentuale di persone favorevoli a ricevere un vaccino oscillava in Europa tra il 74% della Spagna a meno del 55% in Russia.

Nel nostro Paese, circa sette su dieci erano a favore. Numeri tali da compromettere già così la possibilità di raggiungere in tempi brevi la tanto agognata immunità di popolazione ed evitare così alle varianti di avere la meglio. Quale ulteriore effetto dissuasivo avrà la decisione dello scorso lunedì sui cittadini europei? Bisogna aver chiaro che se non vacciniamo (quasi) tutti, sarà come non aver vaccinato nessuno.

Psichiatra e neuroscienziato, direttore Scuola Imt Alti Studi Lucca

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