lunedì 27 gennaio 2025
Viviamo in un tempo che ci rende smemorati. La velocità del presente, l’ossessione per il “nuovo” che verrà, ci trascinano in un eterno adesso, dove la memoria diventa un ingombro...
Il filo spinato attorno al lager di Auschwitz

Il filo spinato attorno al lager di Auschwitz - ANSA

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Viviamo in un tempo che ci rende smemorati. La velocità del presente, l’ossessione per il “nuovo” che verrà, ci trascinano in un eterno adesso, dove la memoria diventa un ingombro. È così che il dramma dell’oblio della Shoah si fa ancora più vero: non solo perché il tempo allontana i testimoni, ma perché la nostra epoca, frenetica e digitale, ci disabitua a ricordare. Non aspettiamo più il futuro con la consapevolezza che lo costruiamo oggi: lo inseguiamo, distratti, senza accorgerci di quello che perdiamo. ... Non c’è tempo... ecco la giustificazione che salda l’oblio all’indifferenza.

Liliana Segre lo ripete sempre: «L’indifferenza è stata la mia vera nemica». E proprio nell’indifferenza si annida la domanda più scomoda: dove eravamo mentre accadeva? La risposta, spesso, è che non eravamo da nessuna parte. Quel banco lasciato vuoto senza che nessuno chiedesse nulla. Quelle finestre chiuse mentre Liliana attraversava Milano nel camion diretto alla stazione. Quella città che non si fermò, non guardò, non chiese. Lo hanno capito i bambini della quinta C della scuola primaria Tovoli di Casalecchio di Reno. Hanno scritto a Liliana Segre immaginando di essere i suoi compagni di classe nel 1938, quando venne espulsa da scuola per le leggi razziali. «In questo periodo io, la Gina, la Francesca e la Marta ci siamo chieste dove tu fossi andata». Nuovamente quella frase semplice, ma terribile. Infatti la vera domanda è: perché non lo chiesero davvero, allora?

Parlando con Liliana, le ho chiesto: «Ma come si fa a non essere indifferenti, quando l’indifferenza è così radicata nel nostro quotidiano?». Liliana mi ha risposto con un sospiro: «Non si può fare altro che scegliere di guardare. Non girarsi dall’altra parte. E quando non possiamo agire, almeno non restiamo muti».

Restare muti. Non solo Milano tacque. Quante città, quanti paesi rimasero in silenzio mentre la storia passava nelle sue forme più atroci? Ascoltando Liliana, penso alla Polonia, alle strade innevate attraversate dagli esseri umani scheletriti della “marcia della morte”.

I superstiti di Auschwitz, già privati di tutto, spinti a camminare nel gelo, con le SS pronte a sparare a chiunque cadesse. Le colonne di corpi sfiniti attraversavano villaggi, campagne, cittadine. E la gente guardava. Dalle finestre socchiuse, dai margini delle strade. Videro passare uomini e donne con le divise a righe, avvolti in stracci, gli occhi incavati, la pelle tesa sulle ossa. Videro i corpi abbandonati sulla neve, colpiti dai fucili o piegati dalla fame e dal freddo. Sentirono il rumore dei passi trascinati, il vento che tagliava la carne viva, il gemito di chi non ce la faceva più. Eppure, la vita nelle città continuava. I negozi aprivano, le chiese suonavano le campane, i mercati vendevano il pane. Gli abitanti osservavano da dietro le tende.

Qualcuno provava pietà, qualcuno distoglieva lo sguardo, altri forse pensavano che, in fondo, fosse giusto così. L’indifferenza non è mai solo omissione. È un giudizio silenzioso, un peso che scegliamo di non portare. È quella frase non detta, quella mano non tesa, quel passo indietro quando servirebbe avanzare. Sono quegli eventi che decidiamo di lasciar correre e dimenticare. È ciò che permette alla storia di ripetersi.

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