martedì 20 marzo 2012
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Un modo di dire ricorrente afferma che quando l’edilizia va, tutto va. L’espres­sione non vale da incitamento ai palazzi­nari famelici o ai fautori della cementifica­zione a tutti i costi: l’edilizia va quando la risultante dell’installazione di un cantiere si traduce in una circonvallazione là dove il traffico è sempre paralizzato, in un raccor­do autostradale che toglie dall’isolamento una provincia, in una ferrovia al servizio dei pendolari o del trasporto dei manufatti di un grande complesso industriale. In un’opera pubblica, in poche parole. Sono considerazioni elementari, ma ardue da recepire in tempi di contestazione serrata verso un’infrastruttura come la nuova linea del Fréjus, quando il no dei singoli, dei grup­pi organizzati o dei corpi sociali tende a pre­valere. È la considdetta sindrome Nimby, a­cronimo inglese che sta per Not in my back yard, non nel mio cortile: ciascuno in pri­vato riconosce che un’autostrada è indi­spensabile, che un rigassificatore è utile, che una centrale elettrica serve, che un aero­porto va ampliato. Via libera alle ruspe, ma a una condizione: che i cantieri non venga­no impiantati nei dintorni di casa propria, ma sul terreno altrui. Ben vengano i bene­fici, gli oneri li sopporti qualcun altro. Così un’Italia egoista, miope, opportunista, incapace di riflettere sulla propria realtà e sul proprio futuro arranca penosamente, perde terreno, invecchia. A 150 anni dall’u­nificazione il Paese fa i conti con una rete di strade statali, o ex statali, disegnata su un re­ticolo d’epoca romana, con ferrovie di pro­gettazione ottocentesca e con un sistema autostradale ancora condizionato nella sua inadeguatezza dalle scelte operate durante la stagione politica della solidarietà nazio­nale, la grande ammucchiata di partiti fino al giorno prima tra loro inconciliabili. «Trop­pe autostrade, fermiamoci», si disse. Non si fermarono la Germania, il Regno Unito, la Francia che partiva praticamente da zero, la Spagna uscita dalle tenebre del franchi­smo, e poi i Paesi dell’Est dopo la lunga not­te del comunismo e della pianificazione. Mentre da noi non si riesce più a spende­re per infrastrutture e gli investimenti so­no calati del 35 per cento in 20 an­ni, l’Europa già in corsia di sor­passo continua a crescere. Scende lo spread tra Btp italiani e titoli te­deschi, ma un altro spread si am­plia a dismisura: quello tra il nostro sistema di trasporti e le reti continentali, una for­bice che fa la sua parte per innescare la recessione che già morde, dato che trasporti efficienti, veloci, dimensionati sulle esigen­ze di una comunità o di una regio­ne sono il motore di qualsivoglia sistema economico. Reti realizzate con attenzione e rispetto per il ter­ritorio, con il consenso informato dell’opinione pubblica e a costi ra­gionevoli, equi, non appesantiti da rinvii, ricorsi al Tar, revisioni dei capitolati (e spes­so dall’onere delle mazzette, tassa occulta che tutti paghiamo) sono il paradigma del dinamismo di un Paese. Perché quando la cantieristica cammina, cresce l’occupa­zione, si creano posti di lavoro, si distri­buisce denaro, cioè reddito che stima la do­manda mettendo in movimento altri settori dell’economia. L’equazione «più opere pubbliche uguale più lavoro» non richiede dimostrazioni, non impone di scomodare Keynes e le sue teo­rie, tanto più che non si tratta di impiegare manodopera prima per scavare una buca e poi per farla riempire, giusto per non tene­re inattivi i disoccupati. Costruire infra­strutture non faraoniche di rilevante utilità nazionale significa uscire per sempre dalla logica delle opere lasciate incompiute o ter­minate dopo decenni dalla posa della pri­ma pietra e fare di un Paese per certi aspet­ti esso stesso incompiuto un Paese final­mente agganciato alla realtà del Duemila. Un’Italia ben «attrezzata» è l’eredità migliore che le generazioni di oggi possono tra­smettere ai loro figli e nipoti. Il no a priori alle opere necessarie è, al contrario, la peg­gior manifestazione di egoismo nei con­fronti di chi verrà dopo di noi.
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