mercoledì 7 gennaio 2009
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Non è il successo immediato la misura degli appelli profetici, dei grandi ri­chiami alla verità e all’amore. Non sono a­nimati da un piccolo calcolo di ritorno d’im­magine, ma solo la loro provenienza da un’autorità credibile e lungimirante impe­disce che risultino sterili e retoriche parole al vento. L’accorata, ripetuta, vibrante esor­tazione a fermare le armi in Medio Oriente di Benedetto XVI ha esattamente questa di­mensione. Dalla cattedra di Pietro, attenta a tutte le tragedie che affliggono l’umanità – senza sciovinismi confessionali –, si leva u­na voce che sarebbe del tutto fuorviante ar­ruolare su un fronte o sull’altro. «Mentre ribadisco che l’odio e il rifiuto del dialogo non portano che alla guerra – ha det­to il Papa – vorrei oggi incoraggiare le inizia­tive e gli sforzi di quanti, avendo a cuore la pace, stanno cercando di aiutare israeliani e palestinesi ad accettare di sedersi attorno ad un tavolo e di parlare». Non si tratta di sug­gerire ipotesi specifiche alla diplomazia, ma di smuovere i cuori e concretamente spin­gere alla trattativa con il peso morale del Va­ticano. L’implorazione finale – «Iddio sostenga l’im­pegno di questi coraggiosi 'costruttori di pa­ce' » –, quasi una benedizione per i protago­nisti delle missioni politiche di questi gior­ni, traduce l’accorata partecipazione del Pontefice per le vite che vengono stroncate, l’apprensione per il martoriato Medio O­riente e le tensioni che vi si accumulano. C’è anche chi ha visto uno sbilanciamento della Santa Sede a sfavore di Israele, le cui ragioni di difesa sarebbero sminuite, sotto­valutando specularmente i torti di Hamas. D’altra parte, coinvolgere il Papa in un in­concludente dibattito su 'chi sta più con chi' sembra futile ancora prima che irriguardo­so. Ci sarebbe piuttosto da esercitarsi con maggiore costrutto sulle possibili soluzioni alla crisi, consapevoli che non potrà esservi alcuna svolta miracolosa e improvvisa. La premessa di ogni ragionamento – palese per alcuni, difficile da accettare per altri – sta nel fatto che Israele considera quella in cor­so un’operazione di polizia, e non una guer­ra in senso classico. Certo, mancano i tradi­zionali elementi del conflitto tra Stati – Ga­za è in una condizione giuridica internazio­nale sui generis –, ma soprattutto Olmert e il suo governo non pensano che vi sia uno scontro in qualche modo 'simmetrico': i mi­liziani fondamentalisti sono come terroristi asserragliati in una enclave, da snidare e met­tere in condizioni di non nuocere – 4mila i razzi da loro lanciati a partire dal 2001 e 18 vittime prima dell’offensiva, quattro in se­guito. Difficile negare la criminale ostinazione di Hamas e la legittimità 'di fatto' di una rea­zione armata di sicurezza, il problema è le­gato alla considerazione di quelli che nel bru­tale gergo militare vengono chiamati 'effet­ti collaterali'. Ad esempio, in una delle re­gioni più densamente popolate al mondo, è necessario sparare a pochi terroristi proprio in 'quel' frangente specifico, con il rischio di colpire una scuola diventata rifugio di ci­vili (com’è avvenuto), facendo 40 morti? Chiedere una tregua non significa quindi parteggiare per Hamas, né darla vinta all’e­stremismo (a questo proposito preoccupa­no e vanno subito fermamente condannati i vandalismi contro le sinagoghe in Europa registrati nelle ultime ore); vuole dire piut­tosto fermare le armi perché nessun missi­le cada sul territorio israeliano, si evitino le uccisioni di civili e si possa alleviare la grave emergenza umanitaria che innegabilmente esiste a Gaza. Il dopo è tutto da inventare. E non saranno i "protagonismi logistici" che talora sem­brano spuntare nelle diplomazie europee (compresa quella italiana), smaniose di o­spitare ipotetici summit, a sbloccare un’im­passe che sarà ulteriormente aggravata da quest’ultima fiammata. Per questo ha anco­ra più valore l’appello del Papa. E per que­sto è inevitabile che vi sia un implicito so­vrappiù di onere per Israele. È una demo­crazia, che conosce il valore della vita e che ha facoltà di difendersi con mezzi propor­zionati. Sarà poi compito anche di Europa e Usa, finora titubanti per ragioni diverse, con­tribuire alla sicurezza dello Stato ebraico e al contenimento di Hamas e dei suoi compli­ci più o meno occulti.
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