martedì 5 gennaio 2021
Un Paese dilaniato, tra una guerra che non cessa e spiragli di accordo
Un soldato yemenita prega per le vittime Huthi in un cimitero a Sana’a

Un soldato yemenita prega per le vittime Huthi in un cimitero a Sana’a - EPA

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Nei giorni in cui lo Yemen ancora in guerra dava vita a un nuovo governo con i secessionisti del Consiglio di Transizione del Sud, gli huthi (gli insorti sciiti zaiditi del nord sostenuti dal-l’Iran), davano fuoco alla storica libreria della moschea sunnita della città di Hajja, vicino al confine con l’Arabia Saudita. Per la pace in Yemen, il 2020 è stato l’anno delle occasioni mancate: per ogni buona notizia, due notizie di segno opposto. Anche il 2021 si apre tra spiragli e rischi. Fa però riflettere che siano adesso due non yemeniti, l’inviato speciale delle Nazioni Unite Martin Griffiths e il presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump, ad avere in mano le carte più pesanti nella partita per il futuro dello Yemen. A dimostrazione che un conflitto politico e di potere interno, nato dalle ceneri della “primavera araba” del 2011, si è trasformato in una disputa d’interesse regionale.

Infatti, il 2021 dello Yemen dipenderà in primo luogo dai risultati di Griffiths, che sta tenacemente negoziando, da otto mesi, una Dichiarazione congiunta tra huthi e governo internazionalmente riconosciuto: obiettivo un cessate il fuoco nazionale, un governo di transizione che includa anche gli huthi, il rilancio di un’economia a pezzi. Ma Trump potrebbe, con un ultimo colpo di coda anti-Iran, classificare gli huthi come organizzazione terroristica straniera, mettendo a soqquadro i negoziati. Non converrebbe neppure ai sauditi: Riyadh si troverebbe infatti con un “terrorista certificato” al confine, quindi con opzioni diplomatiche spuntate e per di più in balia delle probabili ritorsioni degli huthi. Tra le “occasioni mancate” per la pace nel 2020, vi è stata la pandemia da Covid-19 che non ha spento né rallentato il conflitto. La tregua unilaterale annunciata lo scorso marzo dall’Arabia Saudita (che dal 2015 interviene militarmente in Yemen contro gli huthi), non è mai stata accettata dagli insorti che hanno inasprito la guerriglia e i lanci di missili, razzi e droni armati contro il territorio saudita. E Riyadh ha risposto bombardando Saada (roccaforte degli huthi) e le aree settentrionali da loro controllate (la capitale Sanaa), o contese come Marib. Qui sorge la città che fu l’antica Saba della leggendaria regina Bilqis: in quel governatorato in bilico vive oggi quasi un milione dei quattro milioni di sfollati interni.

Ogni angolo dello Yemen testimonia un patrimonio millenario e plurale che non è stato risparmiato, o viene quotidianamente minacciato, dalla guerra: i bombardamenti sauditi hanno danneggiato parte della città vecchia di Sanaa nonché la grande diga di Marib. Il conflitto si trascina, senza vincitori possibili. D’altronde, quale vittoria immaginare in un paese che conta 130 mila morti per i combattimenti, in cui i casi di Covid-19 non vengono testati e conteggiati e i dipendenti pubblici, sanitari compresi, non riescono a ricevere uno stipendio. Secondo l’Onu, le linee del fronte sono passate da 33 a 47 nel solo 2020 e l’insicurezza alimentare acuta colpisce ormai metà degli abitanti (ma l’80% degli yemeniti necessita di assistenza umanitaria) e sta spingendo alcuni territori in carestia. Di sicuro, però, gli huthi non sono sconfitti, anzi.

Dopo oltre cinque anni di guerra, il movimento e poi milizia fondato da Husayn Al-Huthi, oggi guidato dal fratello Abdelmalek, non rivendica più soltanto l’autonomia regionale e confessionale per le terre dell’estremo nord (opponendosi lì ai salafiti che i sauditi appoggiano sin dagli anni Ottanta), ma ha peso e ambizioni nazionali.

E tutto ciò nonostante un rapporto di forza apparentemente impari con Riyadh. Tuttavia, l’intervento militare dell’Arabia Saudita ha prima saldato l’intesa di convenienza nata nel 2014 tra gli huthi e l’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh (dimissionario dopo la rivolta del 2011, nel quadro delle “primavere arabe”), ma che di fatto controllava ancora l’esercito. E poi ha spinto gli huthi verso l’Iran e la galassia del- le sue milizie sciite, in primis Hezbollah, che ora contribuisce all’addestramento degli insorti. Gli huthi sanno usare le armi e la propaganda, con pragmatismo. Abdelmalek, il leader, indossa sempre la jambiya, il tradizionale pugnale yemenita simbolo dello status tribale, nonostante appartenga all’élite religiosa non tribale che rivendica la discendenza diretta da Maometto, come l’intera leadership degli huthi. Il consenso, tra adesione e coercizione, delle tribù del nord è stato infatti determinante per l’ascesa del movimento, che ha assorbito le clientele che per decenni prosperarono con il regime di Saleh: gli huthi si presentano oggi come i protettori dello Yemen contro “l’aggressione saudita”.

Il 2021 dovrebbe segnare il ritorno del governo riconosciuto e del presidente yemenita Abd Rabu Mansour Hadi ad Aden, capitale provvisoria: dal 2015, le istituzioni si sono auto-esiliate a Riyadh per ragioni di sicurezza. Il nuovo governo con i secessionisti del Sud è frutto dell’accordo del 2019 tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, dopo la “guerra nella guerra”, seppur a intermittenza, tra filo-governativi e secessionisti. I sauditi ne sono i garanti e hanno monitorato il ridispiegamento delle forze sul campo, preludio alla formazione dell’esecutivo unitario. Gli emiratini, che combatterono gli huthi al fianco di Riyadh ma hanno giocato una partita autonoma nel sud organizzando le milizie secessioniste (con un occhio alle proprie ambizioni regionali), hanno ritirato gran parte dei soldati nel 2019.

La strada del nuovo governo è più che mai in salita. I secessionisti hanno ottenuto cinque ministeri, ma nei ruoli-chiave sono stati confermati i fedeli del presidente Hadi, premier incluso. L’isola di Socotra è rimasta fuori dall’accordo: parte dello strategico arcipelago dell’Oceano Indiano, la pacifica isola è ormai nelle mani dei secessionisti filo-Emirati Arabi e subisce una progressiva militarizzazione. Ciò avviene con l’assenso informale dei sauditi, provocando l’ostilità di parte della popolazione: qui il conflitto civile non è mai arrivato e Socotra è protetta dall’Unesco come patrimonio di biodiversità. E qualche crepa comincia ad emergere, ad Aden, tra le forze secessioniste, che ora oscillano tra il forte legame con gli emiratini e la necessità di trattare con i sauditi: nel giorno di Natale, ci sono stati tre feriti per il controllo di un distretto della città. Qualunque auspicabile accordo di pace porterà con sé una sfida più grande: quella della riconciliazione nazionale. Le tante anime religiose (musulmani, le ormai piccolissime comunità ebraiche, cristiane, bahai), confessionali (Islam sciita zaidita e sunniti di scuola sciafeita) e locali dello Yemen sono oggi atomi in un paese lacerato dalle macerie, umane e politiche, della guerra.

Fin qui sfruttato per finalità politiche, il settarismo si sta ora insinuando tra comunità che erano abituate a coesistere, spesso a convivere: d’altronde, lo Yemen è un mosaico. Prima del rogo di Hajja, un’altra libreria storica, nella città un tempo universitaria di Zabid, era stata saccheggiata dagli huthi nel 2019. Capitale fino al quindicesimo secolo, Zabid è una testimonianza di pluralismo nella fertile piana della Tihama: un’area sunnita, sul Mar Rosso, che risente delle passate invasioni egiziane e turche, nonché dei costumi del vicino Corno d’Africa. Terra assai diversa dal revival sciita zaidita imposto dagli huthi. Nessun accordo di pace potrà funzionare senza un percorso, condiviso e parallelo, di pacificazione.

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