giovedì 15 novembre 2018
Lo dicevano i nostri vecchi, e non sembri una bestemmia ricordarcelo pure in certi frangenti, che da un male può nascere un bene. E dunque, giacché quello del crollo del ponte Morandi ...
Genova, il ponte, la demografia
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Lo dicevano i nostri vecchi, e non sembri una bestemmia ricordarcelo pure in certi frangenti, che da un male può nascere un bene. E dunque, giacché quello del crollo del ponte Morandi giusto tre mesi fa, col terribile e dolorosissimo e non dimenticabile carico di morti, è stato un male grande che si è abbattuto sulla città di Genova il bene che gliene potrebbe derivare potrebbe essere di dimensioni altrettanto notevoli. A patto di volerlo, a patto di non infilare la testa sotto la sabbia (lo si è fatto troppe volte, a questo riguardo, e non solo nel capoluogo ligure, dove non ci si può più permettere di farlo), ma di tirarla bene fuori per guardare una realtà demografico-sociale che si sta sgretolando inappellabilmente un anno dietro l’altro con conseguenze ben più estese e irrimediabili del crollo del ponte.

Quella della costruzione del ponte di Renzo Piano, con tutto ciò che comporta e ne consegue, è un’occasione che non si può fermare al ponte, che può e deve segnare l’inizio di una strategia per la ripresa di una vitalità demografica che in città e in tutta la Liguria manca da tantissimo tempo e che ha portato entrambe al punto più basso della demografia mondiale, a una popolazione a tal punto vecchia, senza nascite e ricambi, da avere già in gran parte ipotecato un futuro di decadenza se non addirittura di scomparsa. Non sono, queste, affermazioni spese a caso, come spesso si fa in questo nostro tempo in cui si deve gridare per attirare un po’ di attenzione.

Genova detiene una serie di primati negativi che non può pensare di reggere ancora a lungo senza pregiudicare irreversibilmente i destini di città, popolazione, collettività, cittadini. Forse è la sola grande città del mondo dove i cittadini del nono decennio d’età (80-89 anni) sono assai più numerosi di quelli del primo decennio (0-9 anni), quasi che la progressiva eliminazione per morte avvenisse all’incontrario; dove l’indice di vecchiaia è di due volte e mezzo più grande di quello dell’Europa; dove i morti sono ogni anno ben più del doppio dei nati; dove la natalità è del 20% più bassa della natalità italiana, ch’è a sua volta la più bassa del mondo; e infine dove, per l’effetto prolungato della mancanza di nascite, la popolazione femminile in età feconda è drammaticamente al di sotto di quella che dovrebbe essere per alimentare un numero di nascite appena appena adeguato a sostenere una prospettiva di futuro.

C’è ancora una speranza, una possibilità di fermare una traiettoria che più che a un declino assomiglia a una bancarotta demografica? Tutto porterebbe a dire di no. Ma ecco il paradosso del crollo del ponte: che si è trattato di un evento calamitoso talmente grave, anche dal punto di vista simbolico, da non lasciare scampo: la città, Genova, deve essere ripensata. Non può essere semplicemente ripristinata nelle sue funzioni essenziali, deve letteralmente essere rimessa in carreggiata, da dove è uscita da un pezzo.

E questa è l’occasione. Genova per crescita e vivacità economico-produttiva, reddito, occupazione, non ha retto lo sviluppo del nord Italia, non si è staccata soltanto da Milano ma anche da Torino, non dalla sola Lombardia ma da tutto il Nord, è paradossalmente scesa al Sud, sotto la Toscana, sotto il Lazio. E se è successo così, e se i redditi prodotti da Genova sono ancor prima di posizione che di produzione, è anche perché, è anzi soprattutto perché la sua demografia si è inabissata, la sua popolazione si è insieme ristretta e indebolita.

Genova non è fragile soltanto ambientalmente, lo è perfino di più sotto il profilo demografico, della composizione della sua popolazione dalla quale mancano in gran numero giovani, coppie, figli. Prendere atto di questa realtà è il primo, indispensabile passo da fare per cercare di venirne fuori. Impresa al limite dell’impossibile, intendiamoci. Ma c’è un’occasione da non perdere, un’attenzione nazionale da tenere alta, finanziamenti da impiegare e far fruttare in più direzioni, come per irraggiamento, a partire dal nuovo ponte.

E la direzione fondamentale, oltre al ponte, deve essere una e una sola: stimolare in ogni modo la creazione di nuove coppie, offrire loro occasioni e prospettive lavorativo-professionali concrete, cosicché possano approdare presto a quei figli di cui Genova ha bisogno come il pane, più del pane. Ma delle misure si può parlare anche domani. Oggi è indispensabile che si riconosca, che autorità, istituzioni, classi dirigenti, forze politiche, sindacali e culturali riconoscano senza ambiguità, e si uniscano in un patto conseguente per Genova, che senza spingere sul tasto della demografia e della popolazione da rinnovare anche il ponte di Renzo Piano è destinato in un futuro non lontano a sovrastare il deserto.

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